«Middle passages», musealizzazione e soggettività a Bristol e Lampedusa

di Gianluca Gatta, Giusy Muzzopappa

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Introduzione (1)

In questo saggio saranno confrontati due contesti molto diversi ma allo stesso tempo accomunati da recenti processi di musealizzazione dei passaggi di soggetti razzializzati: il middle passage atlantico e quello mediterraneo. Da un lato Bristol e le iniziative, istituzionali e non, di patrimonializzazione della tratta degli schiavi. Dall’altro Lampedusa, isola che negli ultimi vent’anni è stata il simbolo dell’attraversamento del Mediterraneo da parte di migranti africani (ma non solo) e in cui oggi si tenta di riconoscere la dignità di quel passaggio, salvandolo dall’oblio attraverso un’operazione consapevole di contro-narrazione e musealizzazione dal basso. Entrambi i fenomeni sono stati e sono al centro di polemiche e contestazioni. La giustapposizione tra due vicende – una che il dispositivo museale vuole conclusa e dunque consegnata alla storia, l’altra ancora chiaramente in atto ed esposta al lavorio della cronaca – può consentire di riflettere su forme diverse di costruzione di memorie postcoloniali, tra una «storia del passato» le cui ferite sono oggetto di continui tentativi di cucitura e riapertura, e una «storia del presente» di cui si inizia a sentire l’esigenza di memoria, per resistere a quei processi di rimozione che accompagnano la produzione di corpi desoggettivati.

1. Nel corso degli anni novanta la città inglese di Bristol ha visto la nascita e lo sviluppo di una serie di iniziative connesse alla «riscoperta» di un capitolo della storia cittadina rimasto in larga parte nell’ombra: il ruolo della tratta degli schiavi nell’espansione della città in età moderna. Nel giro di pochi anni, la «memoria oscurata» diventa attrazione turistica (2). Questo cambiamento repentino ha visto intersecarsi tra loro istanze dal basso portate avanti da gruppi di residenti e interventi dall’alto orchestrati dalle istituzioni locali, in un continuo dialogo, e spesso scontro, tra narrazioni istituzionali e contro-narrazioni espresse da specifiche comunità di residenti. Nel 1996, nel corso del Festival of the sea, destinato a celebrare i fasti della storia marittima della città, diversi gruppi di cittadini contestano apertamente l’assenza di qualsiasi riferimento alla tratta degli schiavi. Lo stesso accade l’anno successivo, nel corso delle celebrazioni dei 500 anni dal viaggio di Giovanni Caboto che, partito proprio da Bristol nel 1497, approdava sull’isola di Terranova qualche settimana dopo, «scoprendo» l’America settentrionale per conto della Corona inglese. È soprattutto la comunità di St. Paul (il quartiere più densamente popolato da residenti di origine caraibica) a farsi sentire nel corso di alcuni vivaci dibattiti pubblici con le istituzioni locali. Di lì a pochi mesi nasce il Bristol Slave Trade Action Group (BSTAG), un gruppo informale patrocinato dal Bristol City Council Leisure Service (l’equivalente di un assessorato al Turismo), formato da rappresentanti delle istituzioni e della locale comunità nera, da insegnanti e da accademici. Gli esiti più importanti di un serrato calendario di dibattiti pubblici si concretizzano in chiave museale. Tra le varie iniziative figura un’importante mostra allestita dal marzo al settembre del 1999 nel City Museum & Art Gallery, intitolata A respectable trade? Bristol & the transatlantic slavery (in parte trasferita presso l’Industrial Museum di Bristol, dov’è rimasta in esposizione fino al 2005, e attualmente inglobata nel nuovo museo MShed, dedicato alla storia della città). Con il nuovo millennio la storia della tratta non è più un tabù, ma è diventata heritage, patrimonio, attrazione turistica adeguatamente pubblicizzata nei dépliant turistici (3).

Negli anni novanta, mentre a Bristol si avvia questo processo di musealizzazione, a Lampedusa ha inizio il fenomeno sbarchi. In poco più di un ventennio la presenza/assenza dei migranti ha assunto diverse forme. In una prima fase, dai primi anni novanta al 1998 (quando entrò in vigore la legge Turco-Napolitano che istituì i Centri di detenzione amministrativa) sull’isola approdavano liberamente giovani tunisini che si riversavano per le strade del paese e ricevevano un’accoglienza improvvisata dalla popolazione locale e dalle forze dell’ordine. In seguito, con la strutturazione di un dispositivo umanitario-sicuritario di controllo delle migrazioni, agenti specializzati hanno provveduto all’intercettazione delle barche in mare e alla presa in carico dei corpi migranti, limitando il contatto diretto con la popolazione locale e i turisti a brevi segmenti delle operazioni di trasferimento. Questa seconda fase ha coinciso, in particolare dal 2002, con l’attivazione della rotta libica, sulla quale oltre ai migranti tunisini viaggiavano persone provenienti da svariati paesi africani e asiatici. Il ventaglio delle provenienze si allargava, mentre paradossalmente i migranti arrivati sparivano dalla quotidianità di Lampedusa per trasferirsi nello «spettacolo del confine» (4), imbastito dalle narrazioni mediatiche degli sbarchi (5).
Recentemente questo modello si è parzialmente incrinato in seguito ai tentativi governativi di trattenere a Lampedusa le persone arrivate, evitando o rallentando i consueti trasferimenti in altri centri italiani. Nel 2009 ciò ha provocato forti proteste da parte dei lampedusani e di gruppi di migranti temporaneamente allontanatisi dal Centro. Questo nuovo incontro faccia a faccia ha dato vita a forme inedite di rivendicazione locale; il fantasma del «clandestino» ha preso di nuovo corpo materializzando anche le sue istanze. La politica dei respingimenti in mare, attuata nella primavera dello stesso anno, ha in un primo momento posto fine agli sbarchi, ma l’esplosione nel 2011 delle cosiddette «primavere arabe» e del conflitto libico ha scompaginato l’assetto geopolitico delle migrazioni mediterranee con nuove partenze. Il governo italiano ha rimesso in campo l’idea di Lampedusa come punto di stoccaggio ad libitum dei migranti in attesa di rimpatrio, provocando forti tensioni sull’isola. Lampedusa è diventato un laboratorio che produce e mette in scena «scontri di civiltà», ma non sempre questa tendenza ha buon gioco, come dimostrano alcune forme molto interessanti di elaborazione locale del fenomeno. Le reazioni locali all’arrivo dei migranti possono essere schematizzate in tre modelli.
Il primo, veicolato dalla Lega Nord locale guidata da Angela Maraventano, riproduce gli stereotipi e i pregiudizi settentrionali verso un Meridione parassitario e pigro, finendo per applicarli in chiave razziale sia ai siciliani/lampedusani sia ai migranti. Tuttavia mentre i lampedusani hanno avuto «la fortuna» di migliorarsi, grazie al turismo e, implicitamente, al benefico contatto con i turisti settentrionali, i migranti restano privi di autocoscienza, impantanati nelle oscure pratiche dell’assistenza umanitaria, quando non perdono scelleratamente in mare la propria vita svalorizzata. L’identificazione siciliani/africani tende a perpetuare il confine Nord/Sud, legittimando così l’intervento civilizzatore leghista sull’isola; il contemporaneo distanziamento tra lampedusani e migranti sottolinea invece il confine tra un Sud migliorabile e un Sud sprofondato nella sua infantile incapacità di crescere. Un altro modello denuncia invece la subalternità dei lampedusani nei confronti del resto del paese. La Lega Nord è parte centrale del governo e veicolo di quel razzismo alla base delle discriminazioni subite dai lampedusani. Il trattamento dei migranti a Lampedusa non sarebbe altro che la conferma del carattere razzista dei centri di potere nazionali e settentrionali. Si riconosce dunque la razzializzazione che soggiace alle politiche nei confronti dei migranti e dei lampedusani, ma il rapporto tra i due gruppi è implicitamente vissuto come concorrenziale. Un terzo modello, più recente, è maturato durante le proteste del 2009 e si ispira a quelli che Mellino chiama «cosmopolitismi dal volto umano» (6). In questo caso, il recupero della memoria delle migrazioni e della subalternità stempera il confine tra lampedusani e migranti, solidarizzando con questi ultimi e riconoscendone aspirazioni e desideri autonomi, per vivere diversamente l’isola. È nell’ambito di questo terzo approccio che è germogliata l’idea di un museo delle migrazioni a Lampedusa.
L’artista lampedusano Giacomo Sferlazzo, da sempre impegnato a setacciare discariche in cerca di relitti da trasformare in oggetti d’arte, nel 2005 si imbatte nei legni dei barconi dei migranti. La questione immigrazione era ormai così pervasiva da conquistare la sua arte che, a partire dai fatti del 2009 e in particolare con la nascita dell’associazione Askavusa («scalzo» in dialetto locale), acquisisce progressivamente i tratti della militanza politica: «bisognava conservare queste cose, perché sarebbero state distrutte, insieme alle barche, insieme a tutto il resto» (7). «Tutto il resto» che rischiava di perdersi insieme ai legni fradici è la memoria di un ventennio di pratiche di negazione della soggettività delle persone in transito su un’isola le cui lacerazioni interne si sono inevitabilmente fuse con la questione sbarchi. L’idea di un museo delle migrazioni nasce proprio a ridosso delle proteste del 2009 e dell’avvio della sciagurata «politica dei respingimenti» che per quasi un anno ha annullato l’arrivo dei migranti sull’isola. Non a caso quando il fenomeno sembra esaurirsi nasce il bisogno di salvarne le tracce. Questa immagine del salvataggio la ritroviamo operante, infatti, anche alla base delle principali storie di acquisizione che hanno costruito nel corso del tempo le collezioni etnografiche nei musei europei, il salvataggio dalle macerie provocate dall’ingresso dell’Altro nella modernità occidentale. Anche se a Lampedusa la dimensione metaforica del salvataggio delle tracce si mescola in maniera inquietante con quello materiale dei corpi e degli oggetti. Poi gli sbarchi sono ripresi e il processo di musealizzazione si è ritrovato imbricato in una nuova cronaca quotidiana degli arrivi.

2. Attualmente il «museo» di Lampedusa è uno spazio provvisorio allestito in una stanza di una decina di metri quadri che fa da ingresso alla sede di Askavusa. Dal soffitto, coperto da un telo blu, pendono delle scarpe; sulle pareti le opere d’arte di Sferlazzo si alternano con altri oggetti; sulla destra una bacheca di legno raccoglie cose più piccole: spazzolini, pentole, musicassette, pacchi di pasta, libri sacri illustrati, carte da gioco, portafogli, pettini, accendini, qualche foto sbiadita. In un angolo, a terra, sono accatastate delle coperte colorate, tra cui è possibile scorgere uno di quei teli isotermici di soccorso usati all’arrivo. Nell’altro angolo degli indumenti sono piegati e impilati con cura come in un grande magazzino. Nonostante gli organizzatori sottolineino come il museo sia ancora in formazione e manchi una strutturazione vera e propria degli spazi, salta agli occhi la giustapposizione di elementi connessi alla nuda vita (strumenti del soccorso, cibo ecc.) con altri che lasciano intravedere le soggettività dei loro proprietari: una coperta ricamata, il portafogli con la foto di una bambina, musicassette, ma anche oggetti per la cura di sé come pettini e rasoi. Quello del museo è un piccolo spazio sincronico (ricorda quasi la ferma compresenza di elementi di un giardino zen). Privi di didascalie, oggetti e opere d’arte acquistano senso attraverso reciproci rimandi. L’allestimento non predetermina il percorso, ma stimola un continuo andirivieni tra i lati della stanza. Il soffitto azzurro e le scarpe penzolanti danno l’idea di un’immersione istantanea in quella vicenda umana. L’organizzazione degli oggetti, chiaramente percepibile ma volutamente provvisoria, non raggiunge quel rigor mortis caratteristico delle classificazioni museali tradizionali, bensì rivela un’azione di cura delle cose. Per certi versi, si ha l’impressione di un ufficio degli oggetti smarriti, dov’è potenzialmente ammessa la presenza dei loro utilizzatori originari. Anche per questo gli organizzatori hanno ritenuto di dover separare oggetti da esporre da quelli, come lettere e documenti, che contengono dati sensibili o troppo personali per finire in una teca, da destinare invece a forme di archiviazione e fruizione selettiva.

Il senso del dramma, veicolato nella composizione museale lampedusana da questa contiguità nello spazio e nel tempo degli eventi rievocati da oggetti e opere d’arte, è invece affidato nelle esposizioni di Bristol alla prosaicità del racconto storico. La mostra A respectable trade? dispiega una narrazione che segue i canoni più classici della storiografia lineare: la storia della tratta degli schiavi ha un inizio, uno svolgimento e una fine; come gli oggetti esposti è «custodita» dalle teche di vetro che la separano anche fisicamente dal tempo quotidiano a cui appartengono i visitatori e da numerosi pannelli esplicativi. Rispetto a questi ultimi, gli oggetti hanno quasi un ruolo dimostrativo, privati di quell’opacità e multivocalità derivante dal contatto immediato con il fluire della vita e trasformati in meri «documenti». Ordinate didascalie riportano brevi informazioni che spiegano origine e uso degli oggetti, le cui storie di acquisizione non sono però esplicitate fino in fondo: i riferimenti in codice, leggibili e comprensibili solo agli addetti ai lavori, rimandano esclusivamente a prestiti da collezioni private o altri musei, a una pratica di «collezionismo» che ha già sottratto gli oggetti alla quotidianità dei loro utilizzatori. Qua e là emergono dei nomi propri, ma si tratta quasi esclusivamente di personaggi «dominanti» – capitani di navi, proprietari di piantagioni, politici pro o contro l’abolizione – come nel più classico dei manuali di storia. Le vite degli schiavi, ma anche dei marinai imbarcati a forza sulle navi negriere e che spesso condividevano con il «carico» trasportato le medesime, terribili condizioni di vita, non emergono, per l’assenza di documenti sulle loro esistenze (come avvertono gli stessi curatori della mostra). Il potere di evocare queste condizioni di vita è affidato ad alcuni diorami, che però falliscono nel compito di rappresentare la dimensione di sofferenza ed espropriazione che ha determinato l’ingresso degli africani nella Modernità sotto forma di merci imbarcate. Catene, fruste, strumenti di tortura hanno una loro teca, un loro spazio, ma non terrorizzano. La teca, le didascalie, il loro inserimento in un racconto che – lo sappiamo, lo sanno i visitatori – ha un telos a cui tendere, li allontana dalla quotidianità, dalla carne dei visitatori, silenziando le grida e il sangue, ma anche le pratiche di resistenza e rivolta. Si determina così una cesura definitiva tra la soggettività di chi in un determinato momento quegli oggetti ha posseduti, utilizzati o subiti, e quella di chi li osserva e cerca di decifrarli. Questa decifrazione è affidata a esperti, che la esplicitano secondo le pratiche discorsive consolidate della narrazione storiografica. A differenza di quanto può accadere a un visitatore che entra nella stanza di Askavusa – spazio sincronico in cui le embrionali scelte di allestimento trasmettono l’immediatezza spaziale e temporale tra realtà rappresentata e realtà «reale» – al visitatore delle mostre di Bristol è concesso di «stare a guardare», di «leggere», tutte azioni legate a una conoscenza che presuppone una distanza dai fatti narrati, inevitabilmente costruita dal dispositivo museale.

3. La città di Bristol è, o dovrebbe essere, lo scenario che avvicina la storia della tratta alla sua rappresentazione museale. La traduzione di contestazioni e contro-narrazioni in rappresentazione museale ha contribuito ad aggiungere nuovi elementi alla storia della città. La narrazione che ne è scaturita, tuttavia, confinata nell’ambito dello spazio-tempo determinato e concluso del museo, non ha condotto a una critica più radicale delle fondamenta della modernità (di Bristol e dell’intero continente europeo). Una riflessione che da diverso tempo ormai è portata avanti dagli studi postcoloniali, ma che prima ancora ha fatto parte delle contro-narrazioni che hanno costruito la diaspora africana (8). Queste riflessioni rifiutano qualsiasi forma di conclusione nel passato di eventi come la tratta degli schiavi o il colonialismo, ferite aperte che devono interpellare attivamente quel presente in cui hanno luogo fenomeni come gli attraversamenti mediterranei di soggetti postcoloniali. La rappresentazione storica messa in atto a Bristol ricorre invece a un artificio di ordine cronologico per ottenere l’effetto di «aggiunta», e di «integrazione» a cui si accennava sopra. Il racconto si arresta infatti al momento in cui la tratta viene abolita nei territori dell’impero e diventa un capitolo, finalmente svelato ma consegnato interamente al passato, di una narrazione con un rassicurante «lieto fine»: la schiavitù, crimine di cui si sono macchiati settori importanti delle classi dirigenti inglesi (capitani, mercanti, politici, militari), viene abolita su iniziativa di altri settori delle medesime classi dirigenti, gli abolizionisti. La supremazia morale dell’identità britannica – che tanto si è nutrita, e tanto ancora si nutre di un immaginario radicato nell’esperienza imperiale (9) – è salvaguardata e i visitatori della mostra possono agevolmente posizionarsi in una sorta di discendenza diretta da quegli inglesi che hanno lottato contro la schiavitù.

Questo affresco lascia poco o nessuno spazio all’emergere di resistenze e ribellioni di stampo più radicale. La narrazione museale istituisce una cesura radicale tra «loro» e «noi», su più livelli: «loro» schiavisti, «noi» contemporanei – lontani nel tempo e nello spazio e dunque implicitamente diversi – ma anche inglesi liberali e abolizionisti. In un’alterità irrimediabile, unicamente vittime o beneficiari dei crimini o della clemenza del «noi», sono confinati «loro», gli africani divenuti schiavi nel middle passage. La loro esistenza è evocata dagli strumenti usati per sottometterli, dalle immagini delle navi negriere stipate, dal diorama dell’interno di una di queste navi, con tavoloni impilati l’uno sull’altro su cui immaginarne i corpi affastellati come sacchi di merce, dai pochi frammenti di narrazioni di ex schiavi che la magnanimità degli abolizionisti ha riscattato dall’anonimato. La resistenza silenziosa o violenta che ha attraversato le piantagioni nel Nuovo Mondo sin dagli albori del sistema schiavistico, le condizioni di brutale servitù vissute dagli ex-schiavi dopo la liberazione dall’istituto della schiavitù ma non dalle logiche economiche che l’avevano reso pensabile e attuabile, le persistenti condizioni di segregazione sulla base di quegli stessi principi di superiorità razziale che avevano per secoli giustificato la schiavitù, non emergono dalle pieghe della narrazione ufficiale, che corre fiduciosa verso la sua assoluzione finale.

A Lampedusa, dal confronto con vari soggetti e associazioni sul «che fare?» degli oggetti trovati, è emersa l’esigenza di metterli in mostra con taglio critico, rinunciando a un’esposizione definita e definitiva. Contribuire alla memoria di questa «storia del presente» non significa per gli organizzatori fornire risposte ma porre domande, richiede cioè un posizionamento politico estremamente chiaro: essere «contro i respingimenti, […] contro i CIE, […] vedere l’immigrazione come una risorsa, non come un pericolo o una invasione» (10). I presupposti filosofici e politici di questa operazione si concentrano intorno alla ricerca di un’intersoggettività universale. Contro le classificazioni che la «mostruosità della ragione» (11) impone agli esseri umani, soprattutto quando sono in movimento, l’arte può contribuire a scassinare le fortezze del linguaggio, imponendo un approccio che tende alla ricerca di una comune umanità. «La pasta, la coperta ti riportano a delle esigenze primordiali, primitive, universali», dichiara Sferlazzo, e continua:

La fame ce l’hanno tutti, il freddo ce l’hanno tutti, l’esigenza di comunicare e quindi i telefonini ce li hanno tutti, l’esigenza di raccontarsi, e quindi le lettere, di comunicare, di ricordare con le foto, ce l’hanno tutti. Quindi se c’è uno sforzo, diciamo, è quello di riportare questa cosa, che chiamiamo immigrazione, e che è spesso raccontata secondo slogan, secondo frasi fatte, di riportarla un attimo a una condizione di umanità, di individualità (…). Stringi stringi, facendo proprio il minimo comune denominatore, restano quelle quattro, cinque cose che ci accomunano tutti, che sono sia fisiche, cioè fisiologiche ma sono anche spirituali (12)

Da un lato, questa operazione ripudia la riduzione a nuda vita che caratterizza molti approcci umanitaristici alle migrazioni, includendo nella sfera delle «cose che ci accomunano tutti», elementi affettivi, comunicativi e soprattutto il ricordo e la narrazione che richiamano la possibilità biografica di vite politicamente qualificate. È chiaro però che tale impostazione contiene anche delle insidie. In particolare, la riluttanza a riconoscere una qualche specificità alle esperienze concrete dei soggetti migranti (cioè quella faglia tra narratore e uditore presupposto per la narrabilità di un’esperienza) (13), alla quale sembra cedere Sferlazzo quando riconduce le esperienze dei viaggi migratori a un’idea più generale e universale di viaggio:

Il viaggio che queste persone fanno, per me non è solo un viaggio fisico, è un viaggio proprio epico, è un viaggio universale, cioè in questo viaggio c’è la storia del mondo, e riportare dal particolare cioè da questi minimi comuni denominatori… creare una visione universale, questo è l’aspetto che a me personalmente interessa (14).

In questa ricerca dell’«Uomo» i rischi di un’eccessiva de-storicizzazione sono tuttavia stemperati da due fattori. Il primo è la responsabilità che l’artista si assume in prima persona dichiarando apertamente il suo punto di vista. L’altro è dato dalla compresenza di fenomeno e sua rappresentazione, che immerge questa tensione verso l’universale nel vortice di processi storici e politici molto concreti. È proprio la giustapposizione di queste due tendenze – la documentazione critica di ciò che sta accadendo e la ricerca artistica di un contatto umano – all’interno di un processo dichiaratamente aperto e non definitivo, a rendere il progetto ricco di efficaci tensioni critiche.

4. Indagare sulle finalità di un’operazione di patrimonializzazione non può prescindere da una domanda fondamentale: a chi è rivolta questa narrazione? Cosa si propone di suscitare in chi la apprende? Dalle testimonianze scritte di visitatori che hanno sentito il bisogno di esprimere un parere sulla mostra A respectable trade? emergono alcune possibili comunità di «eredi» della storia raccontata, che si differenziano moltissimo in base alla funzione che quella storia assume nel loro presente: se la storia della Bristol schiavista è stata «svelata» ai suoi residenti bianchi (che hanno reagito con disagio, fastidio o sincera compassione), molti dei suoi residenti neri non hanno avuto bisogno di questo shock, perché all’interno della variegata e multiforme diaspora africana nel mondo atlantico la storia della tratta ha un ruolo fondante. Sono state le loro proteste a innescare lo svelamento di questa storia e a esprimere una radicale presa di posizione nel presente rispetto a quegli eventi per altri lontani. In altre parole, gli abitanti del quartiere di St. Paul non hanno difficoltà a riconoscere un’ascendenza diretta nelle storie di sofferenza raccontate dalle mostre, né a rivendicare una tradizione ribelle e di resistenza che le mostre non fanno emergere; i bristoliani bianchi non si sentono discendenti degli schiavisti, che fino a poco tempo fa erano abituati a celebrare come personalità insigni della città. Tutt’al più, possono percepire un’affinità con gli eroi dell’abolizionismo, ma l’evento storico in sé appare estraneo, lontano, appartenente a un passato remoto. Non ci sono forzature in nessuna di queste due reazioni: ciò che le differenzia è il posizionamento politico rispetto a un problema, quello della schiavitù, che in un caso si ritiene superato e irripetibile, nell’altro continua a lanciare i suoi echi sinistri nelle forme contemporanee di pensiero razzializzato. Chiedere a un museo di contenere tutto questo – storia e contro-storia, narrazione ufficiale ed egemone, e narrazioni alternative e subalterne – è probabilmente impossibile: il museo di per sé enuncia una storia che si presenta come «vera», e può farlo perché la colloca in uno spazio-tempo definito e chiuso.

Questo posizionamento preciso nei confronti della storia raccontata, anche e soprattutto da un punto di vista politico, differenzia radicalmente le circostanze che hanno visto nascere l’esperimento museale di Lampedusa. Nei primi mesi del 2011, con i nuovi arrivi dalla Tunisia, Askavusa si è impegnata in un’accoglienza alternativa. Per un periodo gruppi di giovani tunisini sono stati ospitati nella sede dell’associazione. Un giorno uno dei ragazzi, penna alla mano, si avvicina a una delle opere di Sferlazzo e vi appone la scritta Allāh, producendo così una frattura nella limpida autorialità del processo di musealizzazione del fenomeno sbarchi. Nella pratica si è prodotto un contatto che ha mostrato la possibilità di scongiurare il rischio di solipsismo da parte di una popolazione locale per lungo tempo isolata dalle persone arrivate via mare. La questione del punto di vista dei migranti e del loro accesso allo spazio museale è, infatti, al cuore di questo processo e ne rappresenta la posta in gioco più importante. Il museo è frequentato attraverso la rete di contatti dell’associazione Askavusa e finora non c’è stata una vera e propria pubblicizzazione diretta, l’assenza di targhe o intestazioni all’ingresso dell’associazione ne è la dimostrazione più lampante. Ultimamente, però, l’operazione ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali, allargando così lo spettro dei potenziali visitatori. Secondo Sferlazzo l’impatto del museo è molto forte, tutte le persone con cui si è confrontato hanno dichiarato di aver provato, al di qua di ogni possibile ragionamento intellettuale, forti emozioni che hanno condotto a un sentimento di empatia con i protagonisti delle traversate. Questo discorso, unito alla duplice forma documentale e artistica del museo lascia aperta la questione se tale empatia riguardi i migranti oppure l’artista e il suo atto responsabile di cura. Una tensione irrisolta, questa, tra tendenze universalizzanti verso il superamento delle barriere concettuali che separano gli esseri umani su basi etnico-culturali ma anche esperienziali (il viaggio migratorio che resta cucito addosso a ogni migrante) e la pluralizzazione delle voci. La possibilità che il museo si apra alla frequentazione e all’uso creativo, e anche conflittuale, dei diretti interessati alla vicenda degli sbarchi sembra un elemento chiave per conservare viva la componente critica che l’operazione propone. Ovvero il riconoscimento di quelle soggettività che gli oggetti esposti cercano di tenere a galla – come zattere simboliche – scongiurando l’inabissamento in quel «sottosuolo» nel quale i migranti, prodotti come non-persone, spesso sprofondano e dove «politico e delirio, vita e Storia, inconscio e diritto si decompongono, s’intrecciano e si confondono in modo caotico» (15).

5. Il futuro del museo di Lampedusa dipende dall’assegnazione di uno spazio più adeguato ai diversi obiettivi che gli organizzatori si sono posti. Spazio richiesto ma non ancora concesso. La collaborazione con altre associazioni, tra cui Legambiente, ha portato a inglobare nel discorso del museo anche le migrazioni animali «che da questa isola passano proprio come gli uomini, ma con più semplicità» (16). Inoltre, arte e testimonianza sono pensate all’interno di un progetto più ampio aperto alla ricerca e documentazione. L’idea è di articolare gli spazi in un «centro studi» – dove raccogliere e rendere pubblici documenti e ricerche prodotti sulle migrazioni a Lampedusa (e non solo) – e in uno «spazio espositivo», dove sviluppare un percorso graduale che parta da fatti di cronaca esposti in chiave critica e giunga alle opere d’arte. I curatori intendono dar senso alla tematica migratoria sullo sfondo di una critica alle ingiustizie economiche, sociali, ecologiche a livello planetario. Un’immersione nell’arte e nell’energia degli oggetti sottratti alla distruzione/oblio dovrebbe essere così anticipata da una documentazione critica dei rapporti Nord/Sud. Anche se c’è da dire che il passaggio da uno spazio sincronico a un percorso espositivo guidato aggiungerà ulteriori elementi di responsabilità per i curatori, imponendo probabilmente un grado maggiore di fissazione a un progetto che è nato come aperto e partecipato. L’idea che questa storia degli «altri» debba essere programmaticamente inclusa (fino all’indistinzione) in una storia del «noi», conduce alla ricerca di elementi simbolici comuni, come ad esempio l’idea di porre al centro del museo un barcone. Barca come simbolo di una condizione di precarietà che apre alla solidarietà: «siamo tutti supra ‘na varca», recita un detto locale. Ma, ancora una volta, ciò che attraverso la trasfigurazione artistica e museale appare un’astrazione esistenzialista, visione archetipica della condizione umana, va invece a inserirsi profondamente nelle dinamiche storiche contemporanee che stanno trasformando l’isola da luogo di transito e incontro in teatro di sperimentazione di conflitti razziali e segregazione. La barca è lo strumento simbolico per affermare, qui e ora, un diverso modo di vivere le relazioni con le persone impegnate nell’attraversamento del Mediterraneo nero.
Al di là dei presupposti filosofici e delle questioni di metodo, la provvisorietà del museo ha a che fare con questioni più prosaiche come il rapporto con le istituzioni e l’assegnazione di risorse pubbliche. Nel 2009 l’associazione presenta un progetto al Comune di Lampedusa. Questi, nel gennaio 2011, dopo un lungo silenzio, annuncia il progetto di un Museo internazionale dei migranti sull’isola, senza però menzionare Askavusa. Ma la cosa non ha seguito, secondo Sferlazzo, per incapacità e mancanza di una base filosofica seria. A sorpresa però, a fine settembre, gli attoniti askavusani apprendono dai giornali che di lì a qualche giorno a Roma sarebbe stato presentato il progetto Opera – Sui relitti delle libertà. Portato avanti dall’Associazione nazionale famiglie emigrate (ANFE), sotto la direzione artistica, tra gli altri, del presidente della Fondazione Mudima per l’arte contemporanea di Milano, il progetto ha ricevuto il sostegno del Consiglio dei ministri, del Ministero degli Esteri, della Regione Sicilia e del Comune di Lampedusa. L’obiettivo è trasformare i relitti dei barconi in opere d’arte e oggetti di design: «sedie, tavolini, cassette per vino ma anche accessori di ogni ordine e tipo» (17). La produzione vedrà impegnati per un anno artisti e designer provenienti da diversi paesi insieme ai giovani di una cooperativa sociale lampedusana. Il ricavato delle vendite sarà devoluto all’UNHCR. Per gli «ideatori» il progetto è: «un modo per dire (…) che un relitto è testimonianza ma anche porta verso il futuro e segno e simbolo della speranza in un mondo migliore. Ma anche per segnalare la valenza epocale del fenomeno immigrazione, i suoi aspetti umanitari e dare attraverso l’arte un segno di solidarietà» (18). Secondo una delle promotrici, «i relitti non vanno visti come sofferenza, ma come nuova produzione. Oggetti che portano nuova vita» (19).
Si può notare come questo progetto disinneschi, fagocitandola in un generico spirito di intervento umanitario, tutta la carica critica delle idee di Askavusa. La terminologia – speranza in un mondo migliore, aspetti umanitari, vita – è la stessa utilizzata da quegli approcci mainstream al fenomeno migratorio perfettamente complementari alle retoriche cattiviste del tipo «sparate sui barconi». Lessici apparentemente opposti ma che invece, in questi due decenni, hanno alimentato quel dispositivo umanitario-sicuritario che ha definito i contorni del discorso sugli arrivi a Lampedusa. L’esclusione dalla definizione del progetto Opera di quei lampedusani che stanno provando a mettere in discussione tali logiche dimostra come quei dispositivi abbiano iniziato a incorporare anche la produzione culturale e artistica. Askavusa, al contrario, con la sua pratica di accoglienza e solidarietà, mina alla base i presupposti dell’intervento istituzionale sui corpi migranti. Quindi il suo coinvolgimento avrebbe compromesso l’occultamento – che il progetto Opera sembra garantire pienamente – delle responsabilità politiche delle istituzioni (le stesse che hanno patrocinato il progetto) in una delle pagine più buie dell’Italia contemporanea. Lo «scippo» e il parziale ma significativo stravolgimento dell’idea sono stati duramente contestati da Askavusa, in un comunicato in cui si marca la distanza da un progetto che intende trasformare i relitti in «pettini, complementi di arredo, o accessori di moda», si denuncia l’assenza dei «protagonisti di questa storia» (migranti e lampedusani) e l’incoerenza di un patrocinio da parte di «coloro che hanno provocato queste enormi tragedie, che hanno criminalizzato i migranti con il reato di clandestinità, che hanno attuato i respingimenti, che hanno istituito i CIE, che hanno portato Lampedusa ad una situazione disperata» (20). È probabile che i progetti proseguiranno parallelamente, anche se la possibilità di utilizzo dei relitti, oggi piantonati dai militari, è diventato un problema materiale e simbolico cruciale. Forse, è proprio il coinvolgimento attivo dei migranti, «protagonisti di questa storia», che introdurrà elementi nuovi in questa battaglia.

Note conclusive

La contrapposizione tra l’esperienza di Lampedusa e quella di Bristol, alla luce di quanto scritto fin qui, è molto meno rigida e netta di quanto potrebbe apparire: tra i fattori che determinano oggi la fertile fluidità della composizione museale di Askavusa non si può ignorare la sua relativa incompiutezza, il suo essere una sorta di «embrione» di qualcos’altro, qualcosa di più compiuto. Giacomo Sferlazzo si dilunga molto a raccontare dei possibili sviluppi della stanza di Askavusa, ed è significativo che in questi racconti l’esperienza sia definita «museo», con un «percorso», dei «documenti», delle «spiegazioni» che contestualizzino oggetti e scelte espositive. La dimensione emergenziale della stanza di Askavusa, intimamente connessa alla dimensione emergenziale della realtà che vuole raccontare e alla necessità soggettiva espressa da Sferlazzo di dare senso agli scarti di quella stessa realtà componendoli secondo una sintassi artistica, potrebbe risultare incompatibile con la scelta del discorso museale, che estromette ontologicamente il fluire disordinato e affollato della vita, trasformato e ordinato in «storia». Non è un caso che lo stesso Sferlazzo appaia più volte dubbioso circa la definizione di «museo» per il suo progetto, anche se alla fine sembra non riuscire a trovarne una più adegua- ta. L’ispirazione artistica di Sferlazzo aleggia nella stanza-museo, rendendola oggi una sorta di unica installazione che racconta l’esperienza di un lampedusano di fronte alle vicende drammatiche che hanno interessato la sua isola natale. Un’esperienza che cerca di uscire dalla dimensione individuale non attraverso il racconto storico, ma attraverso il linguaggio dell’arte, senza pensare però di poter prescindere da un’attività concreta di documentazione.

Nel caso di Bristol, invece, il linguaggio della storia è utilizzato per uniformare gli sguardi dei visitatori e si riflette nella scelta del dispositivo museale che occulta quasi per definizione il luogo di enunciazione, e dunque la sua parzialità. Conciliare narrazione ufficiale e contro-narrazione all’interno dello stesso dispositivo, giustapponendole con il fine di lasciar scaturire non tanto informazioni (quindi il presupposto didattico implicito nelle mostre di Bristol) quanto emozioni, riflessioni e prese di posizione critiche, sembrerebbe essere il fine ambizioso del progetto di Askavusa: come si diceva sopra, forse una possibile chiave per non lasciare quest’ambizione nel regno dell’utopia è cercare di coinvolgere gli stessi migranti non solo nel processo di assegnazione di significati a relitti e scarti, ma anche in quello di definizione e strutturazione di uno spazio che sia realmente aperto, inclusivo e, soprattutto, permeabile alla realtà che agita le acque e le rive dell’isola.

 

Note

(1) Questo saggio è il frutto di un lavoro di elaborazione, definizione e scrittura comune in ogni suo passaggio. A Gianluca Gatta è attribuibile l’Introduzione, la prima parte del § 2; la seconda parte dei §§ 1, 3 e 4; il § 5; a Giusy Muzzopappa, invece, la prima parte dei §§ 1, 3 e 4; la seconda parte del § 2 e le Note conclusive.

(2) M. Dresser, Slavery obscured. The social history of the slave trade in an English provincial port, Continuum, London 2001.

(3) Per una ricostruzione più dettagliata delle attività del BSTAG, nell’ambito di uno studio più ampio in cui si analizza anche il British Empire & Commonwealth Museum (BECM) e in generale la patrimonializzazione della storia imperiale britannica, cfr. G. Muzzopappa, L’esplosione della memoria. La tratta degli schiavi e l’impero britannico nei musei di Bristol, L’Harmattan, Torino 2009.

(4) N. De Genova, Working the boundaries, Duke University Press, Durham (NC) 2005.

(5) Per un’analisi approfondita del rapporto tra migranti sbarcati e popolazione lampedusana si rimanda a: G. Gatta, «Come in uno specchio. Il gioco delle identità a Lampedusa», in U. Chelati Dirar et al. (a cura di), Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa, Carocci, Roma 2011. Sui meccanismi di «produzione della clandestinità» a Lampedusa cfr. invece: G. Gatta, Migranti a Lampedusa: da esuli a clandestini, in «Parolechiave», 41, 2009, pp. 231-251; G. Gatta, La production du «clandestin». Ethnographie des débarquements à Lampedusa, in «Italies. Littérature, civilisation, société. Revue d’études italiennes», 14, 2010, pp. 539-558; e G. Gatta, Le violenze dei salvatori e dei salvati: scenari lampedusani, «Trickster», 10, 2011, consultabile on-line in http://trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=violenza_straniero:gatta_lampedusa.

(6) M. Mellino, La critica postcoloniale, Meltemi, Roma 2005, p. 182. Immersi nella concretezza storica delle esperienze dei soggetti, tali cosmopolitismi non sopprimono le differenze né escludono i locali, i nativi e i subalterni, riducendosi alla vicenda occidentale o alla cerchia ristretta delle élite transnazionali.

(7) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, Lampedusa, 6 agosto 2011.

(8) P. Gilroy, The black Atlantic: modernity and double consciousness (1993), trad. The black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003.

(9) R. Samuel, Patriotism: the making and unmaking of British national identity, Routledge, London-New York 1989; CCCS, The empire strikes back. Race and racism in 70s Britain, Hutchinson, London 1982.

(10) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(11) I. Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi, Roma 2003, p. 140.

(12) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(13) P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Mondadori, Milano 2000.

(14) Intervista di G. Gatta a G. Sferlazzo, cit.

(15) R. Beneduce, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 91.

(16) G. Sferlazzo, Il museo delle migrazioni di Lampedusa, «Carta», 12 giugno 2011, consultabile on-line in http://www.carta.org/2011/06/il-museo-delle-migrazioni-di-lampedusa.

(17) R. Campolo, «Opera – Sui relitti delle libertà» per Lampedusa, «Balarm», 28 settembre 2011, in http://www.balarm.it/articoli/opera—sui-relitti-delle-liberta-per-lampedusa.asp.

(18) Ibidem.

(19) Ibidem.

(20) http://www.giovanilampedusa.it/blog/447.html.