Corpi miserabili, senza cultura, destinati a disfarsi nella droga, a trasformarsi in oggetto di piacere, a frantumarsi in organi da commercializzare o a perire in mare, l’arrivo di queste persone che non si impegnano a “migliorare” risulta riprovevole, da evitare. Sull’altro versante, quello di corpi curati, manipolati per apparire “a posto”, abbiamo, come si è visto nel dialogo precedente con le forze dell’ordine, la derisione scandalizzata da parte di chi giustifica il proprio lavoro come salvataggio di disperati e arresto di clandestini: “dove devono andare? Devono andare a ballare! Si preparano a festa!”. Alla battaglia tra corpo e parola che caratterizza la relazione tra migranti e forze dell’ordine, si affianca qui un confronto, mai definitivo, tra diverse immagini del corpo.
Biopolitica e produzione della “illegalità”
Negoziare la pena
Durante la mia esperienza etnografica ho notato che l’accusa di mentire era una costante nel giudizio delle forze dell’ordine sui migranti. Essi applicavano questo paradigma anche a ciò che rientrava nell’ambito della sfera umanitaria: la cura del corpo. Nella interazione tra guardie, migranti e medici c’era, infatti, un sottile gioco di definizioni della realtà della malattia e del disagio. Un giorno una dottoressa di MSF mi rivelò:
«A volte i migranti ci mostrano le cicatrici di vecchie ferite che non costituiscono un’emergenza medica, ma sono usate per soddisfare il loro bisogno di attenzione».
In questo caso, l’ambiguità di quel segno – le cicatrici di vecchie ferite – spingeva i medici a includere la richiesta dei migranti in un più generale bisogno di cura, considerando le condizioni psicologiche e le relazioni di potere presenti in quella particolare situazione. Dal canto loro, invece, le forze dell’ordine premevano per l’applicazione di criteri diagnostici più oggettivi, in accordo con un paradigma biomedico ormai superato (PIZZA G. 2005, SANTOSUOSSO A. 2003). C’è una zona grigia tra espressione della malattia (come illness) e menzogna intorno alla quale avveniva una negoziazione tra migranti, medici e forze dell’ordine. Quando, ad esempio, i migranti richiedevano l’aiuto di un medico perché avvertivano dei dolori articolari dovuti alla posizione disagevole assunta sulla barca, gli operatori di Medici Senza Frontiere si sentivano in dovere di riformulare il proprio ruolo di fronte a quel genere di problemi. Perché questo tipo di disagio non rientra nella categoria delle patologie e dei traumi rilevanti dal punto di vista del primo soccorso (l’unica prospettiva che legittimava la presenza di MSF sulla banchina). Esso è, al contrario, più vicino alla prostrazione che alla malattia, anche se non può essere facilmente considerato, come per le vecchie cicatrici, una simulazione, cioè un uso strategico e ingannevole del proprio corpo da parte dei migranti. In casi del genere, le forze dell’ordine mettevano in campo un sapere pratico costruitosi con l’esperienza in situazioni analoghe, sapere che permetteva loro di esprimere giudizi sullo stato di salute dei migranti. Di fronte a corpi inerti, stesi in terra disidratati o in stato di ipotermia e avvolti in teli termici – quelle immagini della disperazione oggetto dello sguardo mediatico – ho spesso ascoltato giudizi del genere da parte delle forze dell’ordine: «Non ha niente, questo domani starà meglio di me!!».
A volte l’individuazione e l’“accertamento” della menzogna sullo stato di salute dei migranti venivano operati dalle forze dell’ordine su altri piani che non implicassero un giudizio clinico. La menzogna, cioè, non era svelata sostenendo da un punto di vista medico l’insussistenza del malessere, ma, senza entrare nel merito della relazione medico/paziente, individuando degli atteggiamenti sospetti che tradissero, all’interno della relazione controllore/controllato, le intenzioni mendaci dei soggetti. Uno di questi piani era quello gestuale, come mostra l’esempio che segue. Durante le operazioni di sbarco un migrante mi fece segno che la gamba gli doleva, così attirai l’attenzione del maresciallo della Guardia Costiera che si trovava lì a due passi. Nel frattempo si era avvicinato anche un funzionario della polizia giudiziaria adibita alle indagini sul traffico dei migranti. Quest’ultimo, riferendosi all’uomo steso a terra con la gamba dolorante, chiese: «Ma questo pure è ammalato? Ha problemi?»; «Sì, gli fa male la gamba» risposi io; l’uomo, da terra, indicò la propria gamba. Notato quel gesto, il maresciallo della Guardia Costiera intervenne con tono tra il sarcastico e l’indispettito: «Dice “la gamba”! Lui parla italiano, eh?! Perciò ti capisce, già ti ha fatto il segno originale di “gamba dolorante”!». Poi rivolgendosi al migrante il poliziotto chiese: «Quale ti fa male la destra o la sinistra?», ma l’uomo disse qualcosa e fece segno di non capire; «You speak english?» replicò il poliziotto; «No, arab» rispose l’uomo, e così iniziarono a parlare in arabo. Nel caso appena illustrato la comprensione dimostrata dal migrante – facilmente giustificabile come decodificazione di codici extralinguistici, gesti, intonazione della voce, sguardi – è utilizzata come prova di una menzogna: parla italiano, capisce quello che dici e adotta lo stratagemma consueto che consiste nell’usare strumentalmente il proprio corpo per raggirare le forze dell’ordine e impietosire medici e osservatori. Ancora una volta il paradigma della menzogna fornisce all’agente il quadro di riferimento per proporre la sua “diagnosi”, ricavata questa volta dall’osservazione dei codici gestuali usati dal migrante per attirare l’attenzione sul proprio disagio. Agli occhi delle forze dell’ordine, l’attività di Medici Senza Frontiere trovava legittimazione nella sua autorità biomedica, un sapere/potere di separare il sano dal malato. Tuttavia abbiamo visto come gli operatori agissero su un confine opaco, in cui lo stato di malessere era oggetto di una negoziazione peculiare collegata alla specifica relazione di potere tra i migranti e le strutture di ricezione della società di arrivo.
Questi nodi chiamano in causa la riflessione antropologica sulla medicina, che avvalendosi della pratica etnografica ha sottoposto a critica le pretese oggettivanti della medicina ufficiale occidentale (biomedicina) (PIZZA G. 2005). Problematizzare la sua razionalità universalizzante, significa trattare la “medicina occidentale” come un “sistema culturale” da rapportare alle forme altre di cura e guarigione e al vissuto e alle rappresentazioni dei “pazienti” (PIZZA G. 2005: 126). Quest’opera di decostruzione del «riduzionismo biologico nella definizione del corpo» (PIZZA G. 2005: 250), insito nell’approccio oggettivante della biomedicina, ha permesso così di ridefinire in senso dialogico i concetti di cura e di malessere e di riconsiderare il rapporto medico/paziente nei contesti sociali ed economici in cui esso ha luogo e nell’alveo delle relazioni di potere in cui è imbricato. Come sostiene Giovanni Pizza, da cui traggo la maggior parte di queste considerazioni:
«La concezione antropologica del concetto di “cura” (…) si definisce come una tecnica dell’attenzione, dell’ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica fra la prossimità e la distanza, fra la parola e il silenzio, sulla consapevolezza dell’impossibilità di separare nel gesto l’aspetto tecnico da quello simbolico ed emozionale, su una comunicazione corporea e sulla dimensione emozionale e politica che questa relazione comporta» (PIZZA G. 2005: 229).
Questa concezione di cura si differenzia da quella oggettivante di terapia che si basa soltanto sulla visione razionale che del malessere ha il medico (26). A Lampedusa, con la loro opera di sdrammatizzazione le forze dell’ordine si inserivano come voce esterna nel delicato processo di negoziazione del significato del malessere tra il medico e il paziente, cercando di ripristinare una oggettività diagnostica che gli stessi medici (e ancor di più gli osservatori esterni) tendevano spesso a relativizzare.
L’attenzione “umana” al vissuto del soggetto in preda al malessere non consiste però in un semplice addolcimento dell’approccio medico, ad es. impiegando tecniche relazionali e psicologiche che in maniera paternalistica rendano la diagnosi e il trattamento medico più accettabili e meno invasivi per il paziente, come un certo discorso interno al paradigma bio-medico propone. Riscoprire il lato umano del rapporto medico/paziente significa, invece, riflettere radicalmente sullo statuto di realtà del vissuto soggettivo del paziente e, da qui, instaurare un dialogo che nella situazione specifica permetta di definire la cura. Un tale approccio critico, secondo Pizza, deve mettere in discussione:
«due assunti paradossali: da un lato, l’illusione di una neutralità del medico nel rapporto con il paziente; dall’altro, la pretesa, impossibile, di isolare nello spazio ristretto dell’interazione medico-paziente i più estesi significati sociopolitici e i più complessi rapporti di forza nei quali entrambi i poli della relazione agiscono e sono agiti, in rapporto alle istituzioni sanitarie e, attraverso di esse, con lo Stato e il mercato» (PIZZA G. 2005: 247).
D’altronde l’esperienza concreta dei medici e degli etnografi conferma come nella pratica molti medici lavorino in questa direzione vivendo le contraddizioni tra ideologia istituzionale ed esperienza diretta della relazione. La specifica situazione di Lampedusa rappresenta un luogo privilegiato di osservazione di queste dinamiche relazionali. Infatti, in questo caso risultano evidenti le contiguità e gli intrecci di sistemi di relazione multipli: migranti-forze dell’ordine, migranti-medici, forze dell’ordine-medici, e tutti questi alla presenza di osservatori esterni. D’altronde, come ha sostenuto in modo pregnante l’antropologo medico Byron J. Good:
«La malattia non si verifica solo nel corpo – nel senso di un ordine ontologico nella grande catena dell’essere – ma nel tempo, in un luogo, nella storia, nel contesto dell’esperienza vissuta e nel mondo sociale. Il suo effetto è sul corpo nel mondo!» (GOOD B. 1999 [1994]: 204).
Nell’atteggiamento delle forze dell’ordine di fronte alle condizioni dei migranti durante gli sbarchi, l’opera di individuazione della menzogna nei discorsi si intrecciava con la sdrammatizzazione del loro disagio psico-fisico. Un meccanismo direttamente collegato al tema dello “spettacolo del trattamento” affrontato sopra, quando ho esaminato il ruolo dinamico delle forze dell’ordine nella produzione della narrazione dell’evento e nel controllo dell’equilibrio tra immagine dell’assistenza e quella della repressione. Un controllo che avveniva a monte attraverso la gestione degli spazi concessi agli osservatori esterni – presenza sulla banchina, regolazione della vicinanza ai migranti, ecc. – ma anche a valle, attraverso l’espressione di giudizi di merito, soprattutto circa le condizioni fisiche dei migranti. Un esempio chiarirà quanto detto.
Il 19 settembre 2005 ci fu uno sbarco particolarmente importante, sia per il numero di persone sbarcate sia per la presenza della portavoce italiana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Laura Boldrini, che in quei giorni stava conducendo accompa- gnata da un cameraman una visita di monitoraggio a Lampedusa. Per l’occasione speciale, quella sera sul molo del porto di Lampedusa erano intervenuti contemporaneamente Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Polizia. Tra le persone sbarcate c’erano anche diversi bambini, di cui alcuni molto piccoli, e un certo numero di persone in stato di ipotermia. Subito lo sguardo delle varie telecamere e macchine fotografiche si concentrò su di essi. Questo fatto, aggiunto alla presenza dell’UNHCR, rischiava di sbilanciare la rappresentazione dello sbarco sul versante umanitario. Le forze dell’ordine, quindi, tesero a fornire elementi interpretativi per evitare che alcune immagini potessero, secondo loro, far sovrastimare il “dramma” dei migranti. Il Comandante della Guardia Costiera, guardando un ragazzo che era stato messo in cura per ipotermia e che in quel momento era inquadrato da una telecamera (Foto 4), esclamò sorridendo: «questo trema con tutte ‘ste telecamere puntate contro!». Con quella espressione icastica, l’ufficiale mise in discussione con sottile ironia il rapporto tra la realtà del malessere e la sua rappresentazione mediatica, ribaltando cioè l’ordine logico di ciò che stava accadendo: “trema perché e ripreso” al posto di “è ripreso perché trema”.
…e il nostro di disagio?
La pretesa da parte delle forze dell’ordine di possedere la verità degli sbarchi, e di gestirne la rappresentazione, si fonda sulla prossimità tra i loro corpi e quelli dei migranti, condizione che dà vita a una sorta di intimità rivelatrice e pericolosa. In alcune circostanze i corpi del controllore e del controllato, che sono contestualmente anche salvatore e salvato, rischiano di sovrapporsi. Ciò dà vita a una serie di discorsi e pratiche che mirano a ridefinire e negoziare i confini tra i diversi soggetti.
Traggo un altro esempio dallo sbarco in cui i migranti arrivati furono trattenuti per diverse ore sulla banchina in attesa che il CPT fosse svuotato e la fotografa francese e il maresciallo della Guardia Costiera ebbero un battibecco sulla “questione barba”. Quando la ragazza lasciò la banchina l’uomo si rivolse a me:
Maresciallo: «La signora se n’è andata contenta?»;
Io: «Non lo so»;
Mar.: «Una rottura di coglioni questa qua! Ma è fuori di testa comunque! Cioè, non per qualcosa, però m’è venuta a fa un discorso: “stanno da tante ore… sembrano stanchi! Magari so stati cinque giorni a mare! Si sentono male, poi li tieni sopra la banchina”; senti ma che vuoi? Ci stavo pure io sopra la banchina o me ne sono andato? No! Loro sono stanchi, io no!».
Questo confronto della sua condizione con quella dei migranti, e la polemica nei confronti di chi dall’esterno chiede spiegazioni su quel ritardo, potrebbero essere interpretati semplicemente come un arroccamento del militare in difesa dell’intera macchina dello sbarco. Tuttavia la situazione è più complessa, lo stesso maresciallo qualche ora prima, quando gli avevo chiesto il motivo di quel ritardo nel trasferimento, mi aveva risposto che era in corso lo svuotamento del Centro e la situazione era ingarbugliata:
«Praticamente il Centro di accoglienza è diventato… è diventato una schifezza completa, perché ci sono Carabinieri e Polizia e non riescono… non hanno la mente aperta per gestire diverse cose, sono.. così! [fa il gesto dei paraocchi], deve finire prima la bottiglia d’acqua per passare alla bottiglia d’acqua successiva, capito? Allora è complicato!».
Questa polemica esplicita esprime il disagio di chi, per colpa di qualcun altro, è costretto a rallentare il proprio lavoro, con effetti negativi sui migranti e sull’immagine del salvataggio. Tuttavia, in una situazione così critica, mostrare una solidarietà eccessiva nei confronti dei migranti avrebbe aumentato il rischio di far saltare i delicati equilibri simbolici tra salvataggio e arresto, minando alla base l’intera struttura della macchina dello sbarco. È qui che lo spirito di sacrificio, mostrare la sofferenza dell’agente di fianco a quella dei migranti, serve a smorzare questa tensione. Il seguente dialogo illustra questa presa di distanza dai colleghi così come dai migranti:
Maresciallo: «…poi ci facciamo le risate, intanto io mando un certificato medico dove dico che mi avete tenuto sotto al sole, a me come a loro, però se mi sento male da solo, viene qualcuno e dice: “guarda a questo, un militare che abbiamo buttato nel deserto e ora sul molo si è sentito male!”, cioè non posso farlo, invece se si sentivano male anche loro [i migranti], almeno due o tre… infatti mi volevo mettere d’accordo, però poi te la cantano…»;
Io: «Poi magari nessuno gli crede»;
Mar.: «No, no… si mettono d’accordo, poi al Centro cantano tutto, dicono: “quello m’ha detto, quello, quell’altro”».
Porre semplicemente il disagio dei migranti al centro delle critiche mosse ai colleghi sarebbe eccessivo e pericoloso, quindi è l’agente che diventa il perno intorno a cui si articola la critica, egli è chiaramente vittima dell’imperizia degli altri agenti, ma deve subire anche l’inaffidabilità (data per scontata) dei migranti, con cui è impensabile poter solidarizzare e da cui deve quindi prendere le distanze, rimarcando un confine che quella situazione anomala aveva rischiato di stemperare.
Anche l’esempio seguente mostra questo processo di ridefinizione dei confini. Il 15 settembre 2005 una delegazione di dodici parlamentari europei (della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) si recò in visita al CPT di Lampedusa (PARLAMENTO EUROPEO 2005). Le dichiarazioni sulle gravi irregolarità e violazioni delle leggi nazionali e degli accordi internazionali in materia di diritti umani nel centro, fatte alla stampa da alcuni membri della Commissione, in particolare Giusto Catania di Rifondazione Comunista, provocarono un certo malcontento tra le forze dell’ordine. Anche la Guardia Costiera si sentì travolta da quelle critiche, come dimostra questo dialogo tra me, due uomini della Guardia Costiera e il medico di MSF:
Agente1: «Ma Gatto [sic!], lei studia… non si può avere il suo lavoro? Per dire: “questa persona ha studiato il fenomeno e ha capito certe cose”… nel bene e nel male, per carità!»;
Io: «Certo… e poi in altri paesi – Usa, Gran Bretagna… – lo “studio di polizia” è considerato un indice di democrazia ed è accettato dalle forze dell’ordine»;
Agente1: «Ma se ci trovassimo negli Usa, con gli immigrati, dovremmo spogliarli, disinfettarli, mettergli una tuta arancione numerata, ecc.»;
Medico: «Ma qui al Centro succede così, no?»;
Agente1: «Ma no! Io ci lavoro, ti posso dire che li trattano meglio di noi, certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi, ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette… Eppure c’è stato uno della commissione parlamentare che ha offeso le forze dell’ordine, non dico chi è, davanti ai parlamentari stranieri. Invece di difendere l’Italia! È vero che io sono fascista naturale, estrema destra… destra consentita ovviamente, ma lui da italiano doveva evitare di parlare in quel modo! Io gli vorrei dire, ma avrebbe dovuto dirglielo qualcun altro: “Vieni a lavorare un anno qui e poi parli! Vieni a vedere di cosa si tratta!»;
Agente2: «Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù! A un nostro collega il barcone ha schiacciato la gamba, non perché l’ha messa fuori, ma perché le onde hanno sollevato il barcone che si è accavallato alla nostra nave. Poi loro vogliono salire a bordo tutti insieme, poi a volte, senza scarpe, scivolano… altri rischiano di essere schiacciati tra la nave e la barca… noi cerchiamo di tenerli seduti, di fargli capire che li prenderemo tutti…»;
Agente1: «Una volta c’erano dei trasferimenti dal Centro, nel frattempo ci fu uno sbarco e bisognò aspettare un po’ prima di effettuare i trasferimenti: ci fu un caso politico! Dissero che non era giusto farli aspettare lì due ore! Ma perché gli ho detto io di venire? E io non aspetto lì? Che quella volta tornai a casa con le bolle sotto ai piedi, con un mal di testa tremendo!»;
C’è da notare come in questo discorso il tema del controllo, dell’arresto (“certo bisogna perquisirli per vedere se hanno armi…”), venga subito coperto e rimpiazzato da quello della cura, del salvataggio (“ma poi li nutrono, li lavano, le schede telefoniche, le sigarette”), che diventa preponderante. Quando il parlamentare, che non ha alcuna esperienza prolungata del lavoro svolto dalle forze dell’ordine lì a Lampedusa, esprime delle critiche sulle condizioni di detenzione nel Centro e sull’assenza di tutela giuridica dei soggetti detenuti, è ancora una volta l’esperienza del salvataggio, e il sacrificio delle forze dell’ordine, ad essere chiamato in causa: “Vieni durante un salvataggio, quando le onde alzano i barconi due metri sopra la nostra nave e poi sprofondano giù!”. Sono i pericoli e i disagi “corporei” connessi a un certo tipo di lavoro – dalla perdita di una gamba, al rischio di fallimento nel salvataggio anche a causa del comportamento dei migranti, fino alle bolle sotto ai piedi e al mal di testa da insolazione – che costituiscono la falange retorica opposta ai tentativi di critica del meccanismo di arresto dei migranti e degli abusi del concetto di ordine pubblico.
Lo spirito di sacrificio, che si può considerare proprio delle operazioni in mare – il soccorso, ben diverso dall’ordine pubblico – finisce per estendersi alle intere operazioni, e in generale a qualsiasi attività eseguita dalle forze dell’ordine, che in determinati casi, nonostante le tensioni tra i diversi corpi (GC, Finanza, Polizia, Carabinieri), come abbiamo visto poco fa, fanno corpo contro i tentativi di individuare l’elemento repressivo all’interno delle operazioni connesse all’arrivo dei migranti (dal mare al Centro e oltre). Uno dei meccanismi per innalzare questo spirito di sacrificio a valore assoluto, sacro, incontestabile, è il mescolamento della condizione dei migranti con quella degli operatori: “li trattano meglio di noi!”.
Pericolosità e utilità dei migranti
Il braccio di ferro tra migranti e forze dell’ordine ha risultati incerti. Si tratta di una partita giocata su corpi che sicuramente necessitano di essere “salvati”, ma con altrettanta certezza sono condannati a restare impigliati nel loro espediente di essere arrivati in pericolo di morte. La precarietà del corpo biologico fa il paio con il carattere menzognero della “parola” espressa, sono facce opposte di una stessa medaglia. La nuda vita deve necessariamente essere anche muta vita. L’ambivalenza del “trattamento” ha forti ripercussioni sui giudizi espressi da soggetti esterni alla macchina anti-immigrazione e sul senso comune che rielabora queste vicende. La disciplina e la cura di corpi pericolosi in pericolo stimola, su un versante, la reificazione di un pericolo non meglio specificato e, sull’altro, il rilascio di un desiderio di utilizzo dei corpi che stanno passando attraverso un meccanismo medico e simbolico di purificazione. Vorrei qui menzionare brevemente due giudizi esemplari espressi da soggetti esterni alla relazione triangolare tra migranti, forze dell’ordine e medici. Durante uno sbarco, alcuni turisti si trovavano nel punto di accesso alla banchina osservando le operazioni e chiacchierando con me e un agente della Guardia Costiera, che era lì per impedire ai curiosi di inoltrarsi più avanti sul molo. Dopo un po’ una donna di mezza età del Nord Italia affermò: «Pensando a questi poveri diavoli mi dispiace, ma in mezzo a questi purtroppo c’è altro!». Alludeva al pericolo potenziale di infiltrazioni terroristiche o criminali. La seconda affermazione proviene da un pescatore lampedusano che, in un’altra occasione, osservava le operazioni insieme a un amico. Un agente della Guardia Costiera aveva appena terminato di contare e separare dagli uomini le nove donne sbarcate, quando il pescatore esclamo divertito: «Marescià… otto, una la prendiamo noi!!». Poi, indicando alcuni giovani africani accovacciati e disciplinati in file ordinate, secondo la procedura, l’uomo confessò all’amico: «Ne prenderei proprio qualcuno, questi sono intelligenti, quanto ci vuole per insegnargli a fare qualcosa, magari il pane o altro, dieci giorni? E dopo lavorano bene!».
Se il “trattamento” è anche un “modo di trattare specialmente una sostanza o un materiale per conferirgli determinate caratteristiche”, le pratiche messe in atto e osservate sulla banchina degli sbarchi hanno l’effetto di produrre corpi pericolosi ma controllati e utili. Il meccanismo di controllo crea il pericolo, un pericolo tanto certo quanto nascosto, nel momento in cui si propone di arginarlo. In questo modo esso crea le condizioni di possibilità per mettere a valore quei corpi docili e sani. Si tratta di una profilassi che consente di dare libero sfogo, in sicurezza, al desiderio di sfruttamento, intervenendo in quel processo che Appadurai definisce il “sofisticato gioco delle traiettorie indigene di paure e desideri intrecciati con i flussi globali di persone e cose” (APPADURAI A. 2001 [1996]: 47). In questo modo la pericolosità e l’utilità formano un circolo rappresentativo in cui i migranti, privati di “voce”, restano inevitabilmente incastrati.
Note
(1) Una prima versione di questo saggio è stata scritta nel 2009. Nel frattempo il quadro geopolitico mediterraneo ha subito delle trasformazioni significative (basti pensare alle rivolte arabe e alla guerra in Libia), tuttavia per evitare eccessive alterazioni del testo, e poiché gran parte delle analisi etnografiche in esso contenute conservano una certa validità autonoma dalle trasformazioni in atto, si è preferito rimandare ad altri testi recenti per approfondimenti relativi alle vicende degli ultimi due o tre anni (GATTA G. 2011a, 2011b). I lavori citati affrontano anche il tema dell’uso politico della “questione clandestini” da parte della popolazione lampedusana.
(2) Un’istituzione particolarmente ambigua e quasi impossibile da “penetrare” da parte di un occhio esterno (in alcuni casi neanche da parte di membri del Parlamento italiano) (AMNESTY INTERNATIONAL 2005, ANDRIJASEVIC R. 2006, DENTICO N. – GRESSI M. curr. 2006, MEDICI SENZA FRONTIERE 2005, PARLAMENTO EUROPEO 2005).
(3) La Misericordia era l’ente gestore del Centro di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) dell’isola nel periodo della mia ricerca (febbraio-ottobre 2005). Precedentemente gestito dalla Croce Rossa (dal 1998), il Centro era passato nelle mani della Misericordia nel 2002 e, quando nell’estate del 2007 fu attivata una nuova struttura, trasformata in Centro di soccorso e prima accoglienza (CSPA), la gestione passò a “Lampedusa accoglienza”, società consortile formata da due cooperative legate a Legacoop: Sisifo e Blucoop. Medici Senza Frontiere, invece, iniziò a lavorare nel CPTA di Lampedusa nel 2002. Nel gennaio 2004 pubblicò un rapporto piuttosto critico sullo stato dei CPT in Italia (MEDICI SENZA FRONTIERE 2005), qualche mese dopo il Ministero dell’Interno negò all’organizzazione l’accesso al Centro. Negli anni successivi MSF ha potuto però svolgere attività di primo soccorso sulla banchina del porto durante gli sbarchi. Il 31 ottobre 2008, in seguito alla decisione del Ministero dell’Interno di non firmare un nuovo Protocollo d’Intesa con l’organizzazione, le attività furono sospese. Ci fu un ritorno nella primavera-estate del 2009, prima che la stretta sicuritaria avviata dal Ministro Maroni e la “politica dei respingimenti” producessero un quasi totale annullamento degli arrivi. Con i nuovi sbarchi del 2011, in seguito alla rivoluzione tunisina e alla guerra in Libia, l’organizzazione ha ripreso a prestare servizio sull’isola.
(4) Intervista del 12 agosto 2005.
(5) Sayad definisce la pensée d’Etat come «una forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello stato, che così prendono corpo» (SAYAD A. 2002 [1999]: 367). Cfr. anche Bourdieu (BOURDIEU P. 1993).
(6) Mi rifaccio qui principalmente ai seguenti lavori: CALAVITA K. 2005, COUTIN S. B. 2005, DAL LAGO A. 2006, DE GENOVA N. 2002, 2004, 2005, DÜVELL F. 2004, 2008, FASSIN D. 2001, 2005, INDA J. X. 2006, MEZZADRA S. 2001, 2004, 2006, PANDOLFI M. 2005.
(7) Nell’economia di questo testo non è possibile approfondire l’importante questione metodologica della relazione dialogica con i migranti. Un rapporto che nel mio caso, dati i peculiari rapporti di forza presenti nella situazione analizzata, è stato impossibile. Nel mio lavoro ho cercato di evitare di considerare questa impossibilità come un semplice ostacolo alla ricerca, cioè come un qualcosa che mi impedisse di giungere a una presunta essenza rappresentata dal “punto di vista dei migranti”, ma ho invece ritenuto che fosse una condizione meritevole di essere analizzata in quanto tale. Per un interessante discorso sui rischi che l’oggettivazione antropologica e la sua divulgazione possano diventare veri e propri strumenti di controllo in determinate situazioni, e sulla necessità di tenere ben distinti lo studio delle persone senza documenti, da un lato, e quello della «illegalità» e della «deportabilità», dall’altro cfr. DE GENOVA N. 2002: 420-423.
(8) Si tratta di un modello euristico, necessariamente semplificato e basato sull’esperienza in un dato periodo. L’uso del tempo presente risponde quindi a criteri espositivi e di semplificazione e non vuole suggerire l’idea di una realtà sempre uguale a sé stessa. C’è da dire, però, che le variazioni nelle modalità di sbarco verificatesi nel corso di questi ultimi anni non influiscono significativamente sulle interpretazioni che seguono.
(9) Per triage s’intende una tecnica di pronto soccorso che prevede una primissima selezione e classificazione dei pazienti mediante una scheda di accettazione e un sistema di indici cromatici che permette ai medici di segnalare in maniera immediata il livello di gravità del disagio.
(10) Per una definizione di comportamento profilmico, come forma più o meno cosciente di auto messa in scena da parte dei soggetti che si trovano di fronte a una macchina fotografica o telecamera cfr. FAETA F. 2003: 115-116.
(11) Uso il termine mediazione nella specifica accezione fornita da Appadurai per indicare i pro- cessi di comunicazione mediatica (APPADURAI A. 2001 [1996]: 16).
(12) Le definizioni sono tratte dal Dizionario della lingua italiana di De Mauro (DE MAURO T. 2000).
(13) Sullo stesso tema cfr. anche Chavez (CHAVEZ L. R. 2008).
(14) Come si vedrà fra poco il carattere “razziale” della produzione dell’illegalità risulta in maniera molto chiara quando gli attori sono portati ad attribuire lo status di rifugiato o profugo.
(15) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).
(16) www.guardiacostiera.it/mezzi/stendardo.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).
(17) www.guardiacostiera.it/organizzazione/antimmigrazione.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).
(18) Come accennato prima, ho potuto riscontrare la presenza di fotografie dello stesso genere – sia della fase di trasbordo dai barconi alle navi, in cui i migranti apparivano in quanto gruppo, sia nella fase a terra, con primi piani di donne e bambini, spesso accompagnati da agenti – incorniciate alle pareti delle caserme di Guardia di Finanza e Guardia Costiera.
(19) Nel linguaggio marittimo per “unità” (navale) si intende qualsiasi costruzione destinata alla navigazione.
(20) Che include: sicurezza della navigazione, protezione dell’ambiente marino, controllo sulla pesca marittima, ecc.
(21) www.guardiacostiera.it/organizzazione/ricercaesoccorso.cfm (ultimo accesso: 22 dicembre 2011).
(22) Quando una volta chiesi a un ufficiale della Guardia Costiera il permesso di salire sulle loro motovedette durante una operazione di soccorso dei migranti, l’uomo rispose tra il serio e il faceto: “se sgozzano me, pazienza, è il mio lavoro! Ma se sgozzano lei è un problema!”.
(23) Su temi analoghi, in particolare sulla individuazione della verità “dal corpo” dei richiedenti asilo mediante le certificazioni mediche cfr. FASSIN D. – D’HALLUIN E. 2005.
(24) L’accertamento dell’età dei presunti minori avveniva nel CPT mediante una tecnica che resta comunque imprecisa: la radiografia del polso.
(25) Intervista concessa all’autore il 22 giugno 2005.
(26) Questa differenza richiama la distinzione in uso prevalentemente nell’antropologia medica statunitense tra illness – l’esperienza soggettiva del malessere vissuta dal paziente – e disease – la definizione oggettiva del malessere, in quanto alterazione dell’organismo, fornita dalla biomedicina –, una ripartizione terminologica che permette di rinominare «il fenomeno indicato dalla biomedicina come “malattia”, restituendo ad esso la pienezza multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale e culturale» (PIZZA G. 2005: 83). Bisogna sottolineare, inoltre, che il concetto di cura ha delle radici filosofiche che travalicano l’ambito della medicina “scientifico-tecnologica” (TORALDO DI FRANCIA M. 2003). Si può, infatti, ricondurre questa nozione a quegli indirizzi filosofici che hanno decostruito la separazione cartesiana tra psiche e soma, e hanno proposto una visione globale dell’uomo. Il pensiero femminista (nelle sue varie ramificazioni) e la bioetica sono gli ambiti che, più di recente, hanno accolto questo concetto, approfondendo l’analisi del «“prendersi cura” come pratica relazionale, […] scambio comunicativo, i cui fini sono plurimi e mutevoli, indipendentemente dal diverso status dei soggetti della relazione e delle situazioni particolari» (TORALDO DI FRANCIA M. 2003: 132).
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Riassunto
Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa.
Il saggio presenta alcune riflessioni intorno alla gestione biopolitica dei migranti al momento del loro arrivo sul territorio italiano. Le interpretazioni si basano su una ricerca di terreno condotta a Lampedusa a partire dal 2005. Il “corpo” dei migranti, ma anche degli altri soggetti impegnati nella loro gestione, costituirà il fulcro per un’analisi delle dinamiche in atto sulla banchina del porto durante la fase di sbarco gestita dalle forze dell’ordine e dagli operatori umanitari. Nella prima parte saranno illustrate le procedure di sbarco, con una particolare attenzione al ruolo attivo delle guardie nella produzione di un’immagine specifica degli “arrivi”. In seguito, si procederà all’analisi del discorso della Guardia Costiera sull’azione umanitaria, un tema che oscilla tra salvaguardia della vita e controllo del confine. Inoltre, saranno analizzate le pratiche di negoziazione della sofferenza da parte di migranti, forze dell’ordine, attori umanitari e osservatori esterni, e, più in generale, la relazione biopolitica tra questi soggetti in campo, con particolare attenzione ai problemi del corpo e della soggettività.
Parole chiave: biopolitica; clandestinità; corpo; migrazioni; trattamento; intervento umanitario.
Résumé
Corps frontaliers. Ethnographie du traitement des migrants à leur arrivée à Lampedusa.
Cet essai présente des réflexions sur la gestion biopolitique des migrants lors de leur arrivée sur le territoire italien. Les interprétations ont été développées à partir d’observations effectuées lors d’un travail de terrain mené aà Lampedusa à partir de 2005. Le corps des migrants, mais aussi ceux des autres sujets impliqués dans leur gestion, constituera le cœur de l’analyse des dynamiques en jeu sur les quais du port de l’île durant les opérations de débarquement géreées par les gardes et les opérateurs humanitaires. Dans la première partie, nous examinerons les procédures de débarquement, en portant une attention particulière au rôle actif des gardes dans la production d’une image spécifique des «arrivées». Par la suite, nous poursuivrons avec l’analyse du discours de la garde côtière au sujet de l’action humanitaire, lequel oscille entre la problématique de sauvegarde de la vie et celle du contrôle des frontières. Par ailleurs, nous analyserons les pratiques de négociation de la souffrance par les migrants, les gardes, les acteurs humanitaires ainsi que les observateurs extérieurs, et, plus généralement, la relation biopolitique entre ces sujets, en nous concentrant en particulier sur les thématiques du corps et de la subjectivité.
Mots clés: biopolitique; clandestinité; corps; migration; traitement; intervention humanitaire.
Resumen
Cuerpos fronterizos. Etnografía del tratamiento de los inmigrantes a su llegada a Lampedusa.
El ensayo presenta algunas reflexiones sobre la gestión biopolítica de los inmigrantes en el momento de su llegada al territorio italiano. Las interpretaciones se basan en un trabajo de campo realizado en Lampedusa a partir de 2005. El “cuerpo” de los inmigrantes, así como el de los otros sujetos involucrados en su gestión, constituirá la piedra de toque para analizar las dinámicas en acción en los mulles del puerto durante la fase de desembarco gestionada por las fuerzas del orden publico y los trabajadores humanitarios. En la primera parte se ilustrarán las prácticas de desembarco, prestando especial atención al papel activo de los agentes en la produción de una imagen específica de las “llegadas” de los inmigrantes. Seguidamente se procederá al analisis del discurso de la Guardia Costera sobre la acción humanitaria, un argumento que oscila entre la salvaguardia de la vida y el control fronterizo. Adicionalmente serán analizadas las prácticas de negociación del sufrimiento entre los inmigrantes, las fuerzas del orden público, los actores humanitarios y observadores externos, y, en general, la relación biopolítica entre los sujetos operantes, prestando particular atención a los problemas del cuerpo y de la subjetividad.
Palabras clave: biopolítica; clandestinidad; cuerpo; migración; tratamiento; intervención humanitaria.
Abstract
Border bodies. Ethnography of the treatment of migrants on their arrival in Lampedusa.
This essay will discuss the biopolitical management of migrants entering the Italian territory. The interpretations presented are based on fieldwork conducted on the island of Lampedusa since 2005. The analysis of the dynamics at work on the har- bour dock during the “landing” phase, which is managed by border guards and humanitarian workers, will focus on the “body” of migrants as well as on the “bodies” of the other actors involved. The first part will concentrate on “landing” procedures. Particular attention will be paid to the active role of border guards in producing a specific image of the “arrivals”. Subsequently, the Coast Guard’s discourse on humanitarian action will be examined and tensions between the issue of life protection and that of borders control will be analysed. In addition, practices of negotiating pain enacted by migrants, border guards, humanitarian workers and external observers will be investigated, as well as the more general biopolitical relationship between these subjects, with a focus on matters of body and subjectivity.
Keywords: biopolitics; clandestinity; body; migration; treatment; humanitarian intervention.