L’emergenza di forme di cinema migrante in Italia.
di Alessandro Jedlowski
In Camera Africa: Classici, noir, Nollywood e la nuova generazione del cinema delle Afriche, a cura di Vanessa Lanari, Fabrizio Colombo e Stefano Gaiga, Cierre Edizioni, Verona 2011 (pp. 69 – 76).
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Così com’è successo nel campo della letteratura, negli ultimi anni la cinematografia italiana ha visto emergere e consolidarsi il lavoro di una serie di registi di origine africana, la cui voce, le cui modalità espressive, le cui storie ed esperienze sono lo specchio di una nazione che, anche se stenta ad ammetterlo, sta cambiando a grande velocità. Se in paesi come la Francia ed il Regno Unito un simile fenomeno è emerso ormai da diversi anni, ed ha visto il progressivo consolidamento di definizioni come quelle di Black British Cinema in Inghilterra o di Cinéma Beur in Francia, in Italia si tratta di un fenomeno relativamente recente e sommerso, cui ancora si stenta a dare un nome ed una posizione nel panorama della produzione cinematografica italiana. Cinema migrante, Black Italian Cinema o forse più semplicemente nuovo cinema italiano, comunque lo si voglia chiamare questo fenomeno propone allo spettatore inedite prospettive per analizzare l’Italia e la sua società in trasformazione.
I film finora prodotti, anche se non particolarmente numerosi, mostrano una grande diversificazione stilistica e narrativa, che permette di ipotizzare a mio avviso lo sviluppo di tre linee guida: una di natura più sperimentale, che esplora codici estetici e narrativi ibridi; una seconda di natura documentaria, nella quale si rileva un forte impegno politico; ed infine una terza di natura più popolare e commerciale, orientata soprattutto verso il pubblico della diaspora, fondata su forme narrative ed estetiche direttamente imparentate con quelle sviluppatesi all’interno del fenomeno video nigeriano, conosciuto come Nollywood[1]. Questa schematizzazione non pretende certo di essere esaustiva, ed inevitabilmente fra i registi che a breve segnalerò diversi si sono spostati trasversalmente fra queste categorie. Tuttavia essa può a mio avviso essere utile per mettere a fuoco le diverse anime di questa nascente cinematografia.
Prima di discutere alcuni esempi è, però, importante sottolineare che la definizione di cinema migrante non è meramente una questione di biografia. Ciò che permette di discutere e mettere a confronto opere così diverse non è soltanto il fatto che esse sono il risultato del lavoro di registi che hanno, come parte integrante del loro percorso, vissuto l’esperienza dell’esilio, della migrazione, del distacco. Esistono, infatti, altri registi del panorama cinematografico italiano, come Ferzan Özpetek e Rachid Benhadij, il cui lavoro non verrà preso qui in considerazione, che hanno vissuto l’esperienza della migrazione e mantengono un legame importante con la loro patria di origine, ma che tuttavia in molti casi non vengono considerati “registi migranti” poiché il loro lavoro si lega a strutture di produzione ed a codici narrativi ed estetici che fanno parte della produzione cinematografica italiana mainstream [2]. La definizione di cinema migrante è dunque legata, come discusso fra gli altri nei lavori di Hamid Naficy (2001) e di Laura Marks (2000), ad almeno tre fattori principali: l’utilizzo, imposto o voluto, di strategie di produzione interstiziali, che fanno della precarietà e dell’improvvisazione importanti quanto inevitabili elementi di connotazione; la pratica di linguaggi cinematografici nella maggior parte dei casi ibridi che, per contingenza o per scelta esplicita, mettono in discussione codici narrativi dominanti ed esprimono in modo più ravvicinato l’esperienza di rottura e di frammentazione generata dal processo migratorio; ed infine, la definizione da parte dei registi stessi della propria opera come marginale, delocalizzata, in posizione di opposizione rispetto al canone cinematografico su cui si fonda l’immaginario identitario nazionale.
Fatte queste dovute premesse, iniziamo questo percorso con l’opera di Theo Eshetu, video-artista e documentarista di origine etiope, cresciuto fra l’Inghilterra, l’Olanda, il Senegal e l’Etiopia, la cui esperienza simbolicamente segna un utile punto di partenza. Il lavoro di Eshetu, infatti, non solo è quello che, fra quelli analizzati in questa sede, si è sviluppato per primo, ma è anche quello che più di tutti si pone alla frontiera fra generi e stili differenti. Eshetu si è trasferito in Italia nel 1982 ed ha lavorato inizialmente soprattutto come video-artista, interessandosi a temi estremamente vari. Nel 1987 ha fondato la casa di produzione White Light con la quale ha realizzato una serie di documentari per la televisione, fra i quali è importante segnalare Il sangue non è acqua fresca (1997), film nel quale il regista compie un percorso autobiografico per esplorare la propria identità, mescolando così frammenti della propria esperienza personale ad un’analisi della storia politica e culturale del suo paese d’origine. Come video-artista Eshetu ha, fra le altre cose, realizzato nel 2009 un’installazione sulla vicenda della restituzione da parte del governo italiano dell’obelisco di Aksum alle autorità etiopi (Il ritorno dell’obelisco di Aksum, 2009). L’istallazione, un gigantesco collage visuale formato da 15 schermi, ripercorre attraverso la combinazione di immagini d’archivio, foto e video girati dal regista l’itinerario dell’obelisco, riallacciando la memoria dell’esperienza coloniale italiana al momento storico presente ed alle motivazioni dell’attuale restituzione di questo oggetto dall’alto potere simbolico. Del 2010 è, infine, la produzione del film Roma, nel quale ancora una volta Eshetu si dedica all’esplorazione di soluzioni estetiche ibride, che lo conducono a creare un linguaggio che si situa fra il poetico ed il documentario, compiendo un’interessante fusione fra le preoccupazioni di natura politica che attraversano la sua opera e le questioni legate alla sua ricerca artistica ed estetica. “Fellini – racconta Eshetu in una recente intervista – diceva che nonostante la natura imperiale, papale e fascista, Roma è in realtà una città Africana. Questo è lo spunto per la mia Roma che vuole essere la visione dello straniero che vive le contraddizioni della città nella quale dialogano il sacro e il profano, il volgare e il poetico, l’eterno e l’effimero in uno scenario di fantasmi e memorie inafferrabili” [3].
Se nel panorama della produzione migrante, il lavoro di Eshetu è senza dubbio quello che dedica maggiore attenzione alla ricerca artistica, è interessante notare come il lavoro di un altro giovane regista etiope, Dagmawi Yimer, la cui esperienza artistica si è sviluppata all’interno del progetto di video partecipativo promosso dall’Archivio delle Memorie Migranti di Roma, si stia progressivamente muovendo da un’iniziale interesse principalmente politico e documentaristico verso una più accentuata attenzione al linguaggio cinematografico ed alla ricerca di un posizionamento artistico netto. La successione dei tre documentari firmati da Yimer, Come un uomo sulla terra (2008, realizzato insieme ad Andrea Segre e Riccardo Biadene), C.A.R.A. Italia (2009) e Soltanto il mare (2010, realizzato insieme a Giulio Cederna e Fabrizio Barracco), mostra bene questo percorso. Se in Come un uomo sulla terra, infatti, la denuncia delle politiche italiane e libiche sulla migrazione è il tema centrale, in Soltanto il mare l’attenzione si sposta su una più astratta questione relativa alle politiche della rappresentazione e dello sguardo. Chi ed in che termini ha il potere di guardare e di definire? Sembrano questi gli interrogativi che guidano lo sviluppo di questo film che, nato dal desiderio di Yimer di ritornare a Lampedusa, luogo del suo primo arrivo in Italia, si trasforma da documentario autobiografico sul tema degli sbarchi a strumento di incontro con la popolazione dell’isola. Attuando una specie di anthropologie renversée del tipo spesso auspicato da Jean Rouch, Yimer finisce per rivolgere la telecamera verso la società nella quale si è trovato proiettato, mettendo in discussione la gerarchia di sguardi implicita a molta della produzione cinematografica sul tema della migrazione.
Di natura differente è il lavoro di Fred Kudjo Kuwornu, regista italo ghanese che ha realizzato la sua prima opera di livello internazionale nel 2009 con il film Inside Buffalo. Questo film, un documentario che interseca un’approfondita ricerca d’archivio con numerose interviste ed immagini raccolte direttamente dal regista, racconta l’esperienza della 92esima divisione “Buffalo” dell’esercito statunitense durante le fasi finali della seconda guerra mondiale. La storia di questo battaglione, l’unico ad essere interamente composto da afroamericani, è particolarmente affascinate poiché permette di riflettere sull’antirazzismo ante-litteram del movimento partigiano italiano in relazione alla complessa struttura di gerarchie razziste interna all’esercito statunitense dell’epoca. Il lavoro svolto per l’attuazione di questo progetto, inoltre, ha spinto Kuwornu a dedicarsi in modo approfondito al confronto con i materiali d’archivio, dando inizio ad una dinamica di interrogazione della memoria visuale italiana su tematiche legate al razzismo ed all’immigrazione che sembra offrire molteplici linee di sviluppo.
Altri registi da tenere in considerazione tra quelli che oscillano fra documentario e finzione nel tentativo di portare alla luce la condizione specifica del soggetto migrante sono Hedi Krissane, Abdulaye Gaye e Malik Ba. Il primo, attore di origine tunisina che ha lavorato per diversi anni nella televisione italiana, ha finora firmato tre film come regista, Lebess (Non c’è male) (2003), Colpevole fino a prova contraria (2005) e Ali di cera (2008), nei quali si tematizza in modo particolare il peso della discriminazione sulla vita quotidiana dei migranti. Abdulaye Gaye ha diretto invece il suo primo film, Life in the city, nel 2009 documentando la vita quotidiana dei migranti senegalesi a Bologna e dando voce alla frustrazione dovuta alle difficoltà di ambientamento nella società italiana. Infine, Malik Ba, regista anche lui di origine senegalese, ha realizzato nel 2001 il film Foreign Office: Xmas 2001, mettendo insieme gli spunti raccolti durante la sua pluriennale esperienza di lavoro nell’ufficio di assistenza per i migranti del comune di Bologna [4].
A completare questo sintetico quadro della produzione cinematografica migrante in Italia, ci sono due case di produzione nigeriane, la IGB Film and Music Industry creata da Prince Frank Abieyuwa Osharhenoguwu a Brescia nel 2001 e la GVK (Giving Vividly with Kindness) creata da Rose Okoh e Vincent Andrew a Torino nel 2005. Rispetto agli esempi presentati finora, l’esperienza di queste due case di produzione risulta profondamente differente, poiché come accennato in precedenza, essa si rifà allo stile estetico e narrativo che caratterizza il dilagante fenomeno video nigeriano. Non mi soffermerò qui sui dettagli legati alla storia della loro evoluzione né sulla totalità dei film che esse hanno finora prodotto. Basti sottolineare per il momento che l’impostazione delle due case di produzione è piuttosto differente. La IGB, da un lato, può essere definita come una casa di produzione tipicamente nollywoodiana, che orienta le sue produzioni principalmente verso il mercato nigeriano, sia in Nigeria che nella diaspora, e che fa uso di una narrativa in stile melodrammatico tipica della maggior parte dei video prodotti in Nigeria. Dall’altro lato, invece, la GVK sta tentando un lavoro più sperimentale, producendo film co-diretti da un regista nigeriano, Vincent Andrew, ed uno italiano, Simone Sandretti, nell’obiettivo di creare un prodotto capace di funzionare sia sul mercato nigeriano che su quello italiano.
La differenza di orientamento commerciale delle due case di produzione si riflette nel modo in cui il tema della migrazione viene affrontato. In un recente film della IGB, The only way after home but it’s risky (2008), la questione della migrazione non è tematizzata direttamente ma fa invece da cornice allo sviluppo della storia. Come avviene in diversi film nollywoodiani ambientati in Europa (si vedano Haynes 2003 e 2009), in questo film l’azione si svolge all’interno di un contesto che mostra un percorso migratorio di successo. Il protagonista del film, Biney, passa con facilità da una storia d’amore all’altra, offre ricchi regali alle sue amanti, le porta a fare shopping nei negozi di lusso delle vie centrali di Milano, Brescia e Verona. La durezza della realtà cui la maggior parte degli immigrati africani è costretta a sottoporsi è esclusa dalla narrazione. Assistiamo in questo caso ad una rappresentazione profondamente legata alla narrativa classica del melodramma nollywoodiano, simile per certi aspetti a quella delle telenovelas latino americane. In questo genere narrativo il contesto all’interno del quale si svolgono gli intrighi sentimentali dei protagonisti tende a confermare un immaginario collettivo dell’Europa come eldorado, luogo di ricchezza e prosperità.
Nel lavoro di Vincent Andrew e Simone Sandretti, invece, il quadro offerto è differente. Nei film finora prodotti dalla GVK, Efe-Obomwan (2006), Akpegi Boyz (2008), Uwado (2008) e Blinded Devil (2010), Andrew, sceneggiatore di tutte le produzioni della GVK, prende spunto dalla realtà della comunità di nigeriani fra i quali vive a Torino, tentando di mettere a fuoco alcune delle problematiche che la attraversano. I temi trattati, dunque, si orientano sia verso una critica interna alla comunità nigeriana stessa che verso una denuncia del trattamento ricevuto dai nigeriani da parte delle istituzioni italiane, spaziando dai conflitti esistenti fra immigrati appena arrivati in Italia ed immigrati presenti sul territorio da lungo tempo (Efe- Obomwan) al rifiuto manifestato da molte giovani coppie di migranti a mettere su famiglia in Italia, paese in molti casi vissuto dai migranti come luogo inadatto a sviluppare una famiglia (Uwado), dal tema dello sfruttamento della prostituzione da parte di alcuni membri della comunità nigeriana (Akpegi Boys), a quello della corruzione della polizia italiana (Akpegi Boys), a quello, infine, delle infinite difficoltà vissute da molti migranti a causa dell’impossibilità di ottenere un permesso di soggiorno regolare (Blinded Devil).
Prendendo spunto dal modello produttivo e distributivo dell’industria video nigeriana, queste due case di produzione puntano verso una distribuzione direttamente in DVD, ed eventualmente via web (come nel caso di Blinded Devil per la GVK), principalmente orientata verso il mercato costituito dai migranti stessi. In questo modo, IGB e GVK partecipano nel creare un sorta di cinema parallelo, di natura profondamente popolare, che difficilmente entra in contatto con una produzione cinematografica d’autore come quella rappresentata invece dagli esempi citati precedentemente e destinata in primo luogo alla circolazione in festival e rassegne tematiche. L’attività di queste due case di produzione è probabilmente solo la punta di un iceberg di dimensioni ben più grandi, quello rappresentato dalla produzione e circolazione di materiale digitale prodotto da migranti in Italia ed altrove in Europa ed orientato al consumo da parte dei migranti stessi. Una breve passeggiata nei mercati africani di Napoli, Roma, Milano o Torino può svelare con facilità quello che a mio avviso rappresenta un ramo importante, ed ancora poco sviluppato in Italia, della ricerca relativa alla produzione ed al consumo cinematografico fra i migranti.
Nella varietà e nella profonda diversità delle esperienze che ho tentato di sintetizzare in queste pagine si esprime a mio avviso uno scenario di grande creatività, che offre spunti di riflessione utili a ripensare secondo prospettive originali ed inedite le trasformazioni sociali che l’Italia sta attraversando. Il confronto con questa produzione, con le scelte estetiche e narrative che propone così come con le strategie di produzione e distribuzione che sperimenta, ha il potenziale di contribuire in modo determinante ad attivare un processo di presa di coscienza collettiva della ricchezza di opportunità di incontro ed di innovazione creativa generata dai processi di migrazione di massa.
Bibliografia
Barrot, Pierre (a cura di). 2005. Nollywood: Le phénomène video au Nigeria. Paris: L’Harmattan.
Gariazzo, Giuseppe. 2000. “Italia anno zero”, in Il cinema europeo del metissage, a cura di Giovanni Spagnoletti. Pesaro: Editrice il Castoro.
Girelli, Elisabetta. 2007. “Transnational Orientalism: Ferzan Özpetek’s Turkish dream in Hamam (1997)” in New Cinemas: Journal of Contemporary Film 5 (1): 23 – 38.
Grassilli, Maria Giulia. 2008. “Migrant Cinema: Transnational and Guerrilla Practices of Film Production and Representation” in Journal of Ethnic and Migration Studies 34 (8): 1237 – 1255.
Haynes, Jonathan (a cura di). 2000. Nigerian Video Films. Athens, OH: Ohio University Press. 2003. “Africans Abroad: A Theme in Film and Video.” In Africa & Mediterraneo 45: 22-29.
“The Nollywood Diaspora. A Nigerian Video Genre.” Intervento presentato alla conferenza “Nollywood and Beyond”, Mainz 13 – 16 maggio 2009.
Marks, Laura. 2000. The Skin of the Film. Intercultural Cinema, Embodiement, and the Senses. Durham and London: Duke University Press.
Naficy, Hamid. 2001. An Accented Cinema. Exilic and Diasporic Filmmaking. Princeton: Princeton University Press.
Note
[1] Secondo il rapporto stilato dall’UNESCO nell’aprile 2009 Nollywood risulta essere oggi la seconda industria cinematografica più produttiva del pianeta. Per mancanza di spazio non mi è possibile presentare qui in modo approfondito l’affascinante storia dello sviluppo di questa industria, a questo riguardo rimando quindi alle raccolte di saggi curate da Haynes (2000) e da Barrot (2005).
[2] Come sottolinea Maria Giulia Grassilli riferendosi alla teoria dell’accented cinema proposta da Naficy, questi sono registi che hanno “italianizzato il loro accento”. Si vedano a proposito gli articoli di Giuseppe Guarizzo (2000) ed Elisabetta Girelli (2007).
[3] Dall’articolo “Theo Eshetu al festival internazionale del film di Roma”, sul sito www.artapartofculture.net, consultato il 03/11/10.
[4] Per i dati contenuti in questo paragrafo si ringrazia in modo particolare la collaborazione di Maria Giulia Grassilli.