Intervista a DS
Questa intervista fa parte di una serie di incontri tenuti intorno al tema del viaggio con alcuni ragazzi etiopici provenienti prevalentemente da Addis Abeba, arrivati in Italia come richiedenti asilo a seguito della repressione condotta dalle autorità etiopiche dopo le elezioni politiche del 2005. Gli incontri hanno avuto luogo a Roma.
Data: 2 febbraio 2008
Luogo: Roma, edificio occupato nel quartiere Anagnina
Durata: 49’42’’
Intervistatore: Sintayehu Eshetu (SE)
Lingua: amarico
Supporto d’archiviazione: registrazione audio digitale
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Traduzioni: Sintayehu Eshetu (amarico-inglese; inglese-italiano)
Revisione: Alessandro Triulzi
Altre informazioni: all’incontro è presente anche Dagmawi Yimer
DS è un giovane rifugiato dall’Etiopia. Nel settembre 2007 arriva a Roma proveniente dal quartiere di Kirkos, Addis Abeba, all’età di 26 anni. Ha studiato per un periodo in India e, dopo essere rimasto brevemente in Etiopia, ha deciso di lasciare il suo paese.
SE è arrivato dall’Etiopia in Italia nel 2007. Vive a Roma.
Abstract: DS, dopo un periodo di studio in India, dove la sua famiglia aveva deciso di farlo studiare, ritorna in un’Etiopia segnata da forti disordini politici. Visto il peggioramento delle condizioni economiche della sua famiglia, peraltro sostenuta dalla sorella risiedente in Olanda, DS decide di unirsi a un gruppo di amici che hanno deciso di lasciare il paese. Il viaggio che lo porta da Addis Abeba a Roma passa per tantissimi luoghi (Khartoum, El Jihlabia, Misratah, Kufra, Sirte, Tripoli, Lampedusa, Brindisi) con mezzi di trasporto diversi (autobus, pickup, camion, gommone) in condizioni disastrose, si ferma in luoghi di prigionia tristemente noti come il carcere di Kufra e lo vede costantemente perseguitato da spregiudicati dallala, poliziotti corrotti e altri. Ormai separato dal gruppo di partenza, DS riesce, dopo diversi mesi, a imbarcarsi da Tripoli per l’Italia e, dopo un viaggio a rischio di naufragio, a giungere a Lampedusa. Portato a Brindisi, rivendica il suo diritto di richiedere l’asilo politico ma ottiene prima un diniego e poi la protezione umanitaria della durata di un anno. Decide poi di recarsi a Roma, dove conduce una vita tra centri occupati, mense Caritas e scuole di italiano.
Estratti della trascrizione: “Siamo rimasti nella prigione di Misrata per venti giorni. In ogni cella c’erano ottanta persone. Gruppi di cinque persone mangiavavano insieme dallo stesso piatto. La prigione era infestata di zecche; per questo avevamo problemi di prurito agli organi genitali. Il water era nella nostra stessa cella. Poiché non funzionava bene, era sempre sporco di escrementi e c’era puzza ovunque: il fetore era insopportabile giorno e notte. La prigione di Misratah non veniva usata per i libici, ma era riservata ai soli immigrati irregolari. Non c’era alcun modo per protestare, resistere o opporsi alla polizia. Venivi severamente picchiato se lo facevi”.
“Ma quando inizi un simile viaggio, non solo è difficile continuare ma anche tornare indietro. Ogni volta che davano i soldi a qualcuno, gli veniva detto che non c’erano più macchine, o venivano altrimenti truffati dai dallala locali sudanesi. A volte in questi casi è più semplice andare avanti che tornare indietro. Alcuni di noi erano rimasti lì abbandonati, incapaci di andare avanti o indietro. Era una situazione molto triste”.
“Il primo mese abbiamo pagato di tasca nostra i trasporti: pagavamo il metro due volte al giorno per andare a scuola ed abbiamo dovuto cambiare gli orari per il pranzo. Quando sono arrivato in Italia, ero molto deluso. Questa è l’Europa?- mi sono chiesto. A volte quando sei sul treno, vedi persone che non vogliono sedersi vicino a te e non vogliono mettere le loro mani vicino alle tue mentre ti reggi in piedi in autobus; ma ci sono anche altre che se ne fregano. C’è una grande differenza tra le persone. Se qualcuno mi chiedesse se rifarei questo viaggio o incoraggiarei qualcuno a fare lo stesso, io direi a chiunque, non venire. So che alcune persone hanno problemi politici nel mio paese e che per loro non c’è altra alternativa. Ma se possono avere una minima scelta, non dovrebbero venire qui nella maniera in cui l’ho fatto io. La situazione è molto difficile ovunque, e le condizioni di lavoro sono ugualmente cattive sia qui che là”.
“Sia il viaggio nel deserto che quello in mare sono molto difficili. La differenza è che, mentre nel deserto se hai dei problemi ti puoi fermare e aspettare un aiuto, nel mare ciò è impossibile. Molte persone sono morte in mare, molte di più che nel deserto. Le persone vedono morire i loro familiari davanti ai loro occhi. Per questo è stato meglio che io e mio fratello abbiamo fatto il viaggio separati. Sarebbe insopportabile altrimenti. Ho un figlio in Etiopia che vive con mia madre. Lo chiamo spesso ma ora non ho abbastanza soldi quindi chiamo di meno. Per il mio futuro, se riesco a trovare un lavoro e un posto dove stare, mi piacerebbe rimanere qui, ma se non è possibile devo andare avanti e proseguire. Non si può vivere così, senza un proprio lavoro o una propia casa”.