di Gabriel Tzeggai
Gabriel Tzeggai, urbanista eritreo, ha partecipato alla lotta per l’indipendenza dell’Eritrea (terminata nel 1991) e, dopo aver lavorato come urbanista nell’Eritrea indipendente, ha lasciato il paese nel 2006.
18 settembre 2016
Ti chiedo di fare lavorare la tua immaginazione. Ti avverto che non sarà facile.
Prova ad immaginare te stesso rinchiuso in una cella buia, cioè una cella senza alcuna illuminazione, dove è sempre buio.
La tua cella è larga 3 metri per 4 e include un cesso di pessima qualità. La tua prigione si trova in un luogo segreto in una zona desertica dove di giorno c’è un caldo infernale e di notte fa molto freddo. Non c’è un letto e per dormire hai solo un tappeto di materiale sintetico e una coperta. Sei sempre a piedi scalzi.
Prova a immaginare di essere rinchiuso in questa cella ammanettato per 24 ore su 24.
Le manette sono quelle che i carabinieri italiani chiamavano “schiavettoni” oppure “ferri di traduzione”. Prova ad immaginare di stare con le mani in queste manette per 15 anni giorno e notte. Ventiquattro ore su ventiquattro per quindici anni. Le manette ti vengono tolte solo per circa mezz’ora ogni 10 o 15 giorni affinché tu ti possa lavare.
Quel poco di luce che riesci a vedere è solo quando ti lasciano la porta aperta e ti è permesso uscire per circa un’ora davanti alla tua cella in uno spazio angusto di due metri per due. Questo spazio è delimitato da mura in cemento alte circa tre metri con in cima una rete metallica e perciò non riesci a vedere nulla a parte il cielo. Quando il carceriere apre la porta i tuoi occhi rimangono abbagliati perché non sono più abituati alla luce. Molto tempo fa, appena uscito in quello spazio ristretto, la prima cosa che facevi era guardare verso il cielo. Lo abbracciavi avidamente con lo sguardo perché era l’unica cosa libera nella tua esistenza da recluso. Ora non lo fai più. Uscire in quel piccolissimo spazio è diventato un vero tormento per i tuoi occhi. La tua vista è diventata troppo debole e tieni sempre lo sguardo abbassato e, ormai, a malapena riesci a vedere i tuoi piedi scalzi.
Con le mani in manette all’altezza dell’inguine, fai due passi e mezzo su un lato e poi altri due passi e mezzo sull’altro lato. In senso orario e altre volte in senso anti-orario, fino a che il carceriere, che non ti parla mai, batte due colpi al cancello metallico e tu torni dentro la tua cella buia.
Prova ad immaginarlo: quindici anni.
Questa breve uscita è l’unica variazione nelle giornate di questa infinita prigionia. Tornato nella tua cella sarai di nuovo nella buia solitudine. Sei solo, insieme ai dolori del tuo corpo tormentato dalla postura innaturale causata dalle braccia in manette, perennemente piegate, debilitato dalle malattie e dalla scarsa qualità del cibo, che spesso non puoi mangiare perché sei straziato dal dolore ai pochi denti che ti sono rimasti.
Quando stai male ormai non ti lamenti più, sai che non avrai comunque risposta. L’assistenza medica non esiste. Il paramedico della prigione ti ha fatto visita solo quelle volte che sei rimasto stremato dalla febbre o dalla dissenteria. In quelle occasioni è tornato per vari giorni e ti ha dato delle pastiglie. Non ti ha mai rivolto una parola.
Tutto questo, il caldo e il freddo estremo, le manette che non ti vengono tolte mai, la fame, il tormento e il dolore delle malattie, essere relegato in questa cella buia, fa tutto parte della tua condanna. Tu sei stato condannato a una prigionia di perenne tortura.
Prova ad immaginarlo.
La tortura più grande, però, è che in questa cella ci stai solo e non parli con nessuno. Nessuno ti parla. Le guardie non ti rivolgono parola. In questo buio e in questo silenzio totale il tempo non esiste. La vera tortura è questa silenziosa solitudine a cui sei stato condannato. Nessuno ti ha mai detto il perché, non sei mai stato in un tribunale, sei solo stato incarcerato. Tu sei stato condannato al silenzio.
Hai provato ad immaginare tutto questo? Non ci riesci, vero? Se hai provato ad immaginare te stesso in questa situazione, lo trovi talmente difficile che ti convinci che tutto questo è talmente assurdo da non essere vero e che è solo il racconto di una situazione immaginaria.
Purtroppo non è così. Questa prigione esiste veramente in Eritrea, in un luogo che si chiama Era’Ero.
Il 18 settembre 2001 importanti esponenti politici, conosciuti come i G15, furono arrestati per poi letteralmente sparire in prigioni segrete. Subito dopo tutti i giornali privati vennero chiusi e quasi tutti i giornalisti furono arrestati. Da allora, di loro non si sa nulla. Pure loro sono spariti e la stampa privata non esiste più. Molte altre persone furono arrestate per aver espresso dissenso o semplicemente perché sospettate di opporsi al governo. Tra loro c’erano molti che avevano lottato per l’indipendenza del paese. Nemmeno di queste persone si sa più nulla. Tutte sparite e per molto tempo nessuno sapeva dove. Ci sono voluti anni ed è grazie a una guardia che è fuggita che sappiamo con esattezza di questa scellerata prigione.
Il 18 settembre 2001 è una data simbolicamente importante poiché rappresenta l’assassinio della libertà di parola e della rappresentanza popolare. Con la chiusura della stampa privata e l’arresto di tutti i giornalisti, il regime dittatoriale ha letteralmente assassinato la libertà di espressione.
Arrestando i membri del G15, il dittatore Isaias Afewerki ha deliberatamente ucciso le potenziali istituzioni di rappresentanza e di supremazia della legge che essi proponevano.
Ma quella non era la prima volta che delle persone venivano arrestate senza essere portate davanti alla legge. Già dai primi anni dell’indipendenza molte persone venivano arrestate in modo arbitrario, sequestrate dalle loro case e fatte sparire. Ma quasi sempre si trattava di azioni svolte in segreto, di notte oppure senza testimoni e le notizie si divulgavano poco.
Ciò che caratterizza il periodo post 2001 è la violenza esplicita, diffusa, sistematica ed istituzionalizzata condotta dal regime. Ciò che in modo vergognoso rappresenta più di tutto la ferocia di questa dittatura è il sistema delle sparizioni forzate e il clima di paura che ne consegue.
Non esiste solo Era’Ero, il paese è pieno di prigioni segrete dove migliaia di persone sono sparite e altre migliaia sono incarcerate in terribili condizioni con sofferenze così immani che nemmeno con il più grande sforzo mentale potremmo immaginare. Nessuno di loro ha mai avuto un giorno in tribunale e nessuno delle loro famiglie ha mai potuto vederli. Si tratta di donne, e uomini, veterani della guerra di liberazione, rappresentanti religiosi musulmani e cristiani, docenti, artisti.
Il 18 settembre è una data simbolica che rappresenta e include tutte le forme di sofferenza a cui è assoggettato il popolo eritreo. In questa data noi non ricordiamo, perché il dolore che fa parte della propria vita giornaliera non lo si ricorda solo durante una data commemorativa. Esso fa prepotentemente parte di te ed è un perenne compagno.
In questa data noi raccontiamo i fatti a chi non sa e invitiamo chi ha voltato lo sguardo da un’altra parte a guardare con coscienza la verità.
I crimini contro l’umanità commessi dal regime di Isaias Afewerki sono accertati e resi ben noti nientemeno che da una Commissione di Inchiesta delle Nazioni Unite, il cui rapporto parla addirittura di schiavitù istituzionalizzata. Nessun governo o istituzione può negare questo fatto. Eppure, in modo molto paradossale, osserviamo che l’Unione europea ha deciso di stanziare ingenti somme per “fermare i migranti”, iniziando a sborsare fondi proprio ai due dittatori dell’Eritrea e del Sudan.
Se voi, leader dell’Unione europea prendete per scontato che ormai le persone incarcerate senza alcun processo sono da considerare sparite per sempre e vi siete rassegnati a sorvolare, vi assicuro che noi non ci rassegniamo e continueremo a porre domande.
Come ci si sente, cosa si prova quando qualcuno della tua famiglia sparisce e non ne sai più nulla? Cosa si prova nel sapere che è sparito per mano del governo ed essere consapevole che chiedere informazioni potrebbe essere pericoloso? Cosa si prova a vivere in questo modo per tanti anni, una dozzina, quindici o venti anni?
Come può una donna rimanere mentalmente sana sapendo che suo marito, il padre dei suoi figli, è sparito in qualche prigione segreta? Cosa si prova a non avere la possibilità di sapere che fine ha fatto?
Esiste uno psicologo o uno scrittore che abbia la capacità di descrivere il disorientamento che prova un bambino quando tutto d’un tratto il papà sparisce, non torna più e nessuno è capace di rispondere ai suoi perché? Come spiegherete tutto questo ai bambini che già arrivano qui attraversando il deserto e il Mediterraneo?