Dialoghi di backstage dal film C.A.R.A. Italia

I racconti che seguono sono estratti dai dialoghi di backstage raccolti da Dagmawi Yimer durante la lavorazione del film documentario C.A.R.A. Italia (40’, Asinitas-AMM 2010) girato in collaborazione con un gruppo di giovani somali richiedenti asilo allora ospitati nel Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto. La traduzione dal somalo è di Cristina Ali Farah. Una parte di questi racconti, sotto il titolo “Tre storie nomadi”, è apparsa sulle pagine de Lo straniero (n. 164, febbraio 2014).

“Ci hanno portati a Roma in un grande centro di accoglienza” (H.)

(Db/CI 1) Sono nato a Ceeldheer ma sono cresciuto a Mogadiscio. Quando avevo quattro anni mi hanno portato alla dugsi (scuola coranica), perché imparassi il Corano. Ero piccolo, quindi non mi hanno portato alla dugsi perché ero già in grado di imparare, ma per tenermi occupato e non farmi andare in giro.
Non ho resistito a lungo, così quando avevo sei anni, ho iniziato di nuovo a studiare il Corano e contemporaneamente andavo alla scuola normale. Sono cresciuto in un periodo in cui in Somalia non c’era un governo, ho fatto la scuola coranica fino a dodici anni e contemporaneamente la scuola normale che ho continuato fino a quando ne avevo diciotto.
Quando ho finito la scuola di Corano sono passato alla scuola media e poi a quella superiore. Alla scuola media studiavamo 10 materie, la matematica, la chimica, la geografia, la fisica e queste quattro costituivano le Scienze, poi c’erano le Arti. Si studiava in inglese, in arabo e in somalo. In somalo studiavamo le poesie di un tempo, la storia somala e molte parole che adesso non si usano più, ma un tempo si usavano.
Abbiamo continuato a studiare le stesse materie in modo più dettagliato. Finita la scuola superiore ho cominciato a frequentare l’università di Mogadiscio. Dopo Siad Barre tutte le università e le scuole erano a pagamento, perché non c’era un governo che le finanziasse. C’erano delle scuole per i bambini, ma io sono sempre andato in scuole private. A me piaceva molto studiare e sono sempre stato uno di quelli che studiano molto e vanno molto bene [a scuola].
C’erano amici con cui studiavo, con cui preparavo le lezioni. Io e A. abbiamo fatto insieme le elementari e le medie in arabo, poi io ho cominciato la scuola superiore in inglese, mentre lui ha continuato con l’arabo.
Quando facevo la scuola elementare e media il pomeriggio studiavo l’inglese a una scuola privata. Ci siamo ritrovati insieme all’università. Ma la situazione politica peggiorava, prima sono arrivate le corti islamiche, poi gli etiopi. Gli scontri sono aumentati. Succedeva che mentre eravamo all’università ci fossero degli scontri, c’erano anche prima, ma poi sono aumentati. [La scuola] rimaneva chiusa per settimane o mesi, oppure rimanevi bloccato dentro per gli scontri, non potevi tornare e la tua famiglia si preoccupava.
È per questo motivo che abbiamo deciso di lasciare il nostro paese. Siamo passati per l’Etiopia, il Sudan, il Sahara e siamo arrivati in Italia. La nostra idea era che siccome nel nostro paese c’era la guerra civile e noi eravamo persone che amavano lo studio, così avremmo raggiunto il nostro obiettivo.
Ci hanno portati a Roma in un grande centro di accoglienza dove c’erano somali e rifugiati di altre provenienze. Pensavamo che nel campo ci fosse una scuola in cui avremmo imparato la lingua mentre aspettavamo i documenti e poi avremmo potuto continuare a studiare. Il campo si è rivelato come una prigione. Noi non siamo arrivati qui per mangiare, dormire e andare in giro come degli animali, io voglio studiare e lavorare per migliorare la condizione mia e del mio paese.
Non è facile, dopo aver studiato al liceo e per due anni all’università, arrivare in un paese in cui ti dicono mangia, dormi! Sei abituato al lavoro, all’attività, sei abituato a svegliarti tutte le mattine, ad andare a scuola, a tornare, a studiare il pomeriggio, occupare il tuo tempo insomma. Rimanere seduti senza far nulla è come stare in prigione. Dopo un po’ abbiamo iniziato una scuola che frequentavamo una volta ogni due settimane, alcuni hanno avuto i documenti e sono venuti in città. In città abbiamo trovato la scuola [Asinitas] che ora frequentiamo.
Prima di arrivare in città, non conoscevamo i luoghi, non c’erano persone che ci avevano preceduto e ci davano informazioni. Siamo rimasti due mesi fermi al campo senza sapere cosa fare. Solo quando alcuni di noi sono venuti in città e sono andati alla moschea per l’Iid (festa di fine Ramadan), hanno incontrato Z. che li ha bene accolti, hanno chiacchierato, ha chiesto loro dove stavano, hanno risposto che erano a Castelnuovo, ha chiesto loro se andavano a scuola, hanno risposto di no, ha detto loro che c’era una scuola e si sono dati appuntamento un giorno per andarci insieme.
Quando i ragazzi che avevano avuto i documenti sono venuti a trovarci al campo, abbiamo chiesto loro cosa avevano trovato in città. E uno di questi con cui avevo fatto amicizia ha detto che nessuno li aveva accolti in città all’inizio, che dormivano alla sede dell’ex Ambasciata e ex Consolato [della Somalia, a Via dei Villini] e poi avevano incontrato una bravissima ragazza che aveva mostrato loro la scuola. Gli ho chiesto come era la scuola, mi ha risposto che era un’ottima scuola, ma era molto lontana per noi che abitavamo a Castelnuovo e non avevamo ancora ricevuto i documenti.
Io e il ragazzo abbiamo preso appuntamento un giovedì, eravamo nel mese di ottobre, il 10 o 11 del mese, abitavamo nella stanza in cui siamo adesso, io, A. e G., ci siamo dati appuntamento a Termini, siamo venuti alla scuola e abbiamo incontrato il mu’allim [maestro].
La scuola è diventata la nostra scuola.
Arrivi in un paese e ti mettono in un posto a sedere, noi siamo arrivati come profughi e per stare in un posto abbiamo bisogno di comunicare. Quando ti danno i documenti ti riversano nella città dove non conosci nessuno, non conosci la lingua, la vita è molto difficile, non hai soldi, né il biglietto per i mezzi, questo paese è freddo e per andare a scuola ti devi svegliare molto presto, non conosci nessuno e non conosci le abitudini di questo paese. Anche se ci prendono e ci multano, dobbiamo resistere a queste avversità perché è nel nostro interesse venire a scuola e imparare la lingua.

 

“Mio nonno ha iniziato a insegnare il Corano a quattordici anni” (A.)

(Db/CI 1) Mio nonno ha iniziato a insegnare il Corano quando aveva quattordici anni. Un tempo la maggior parte dei somali viveva in boscaglia mentre ora vivono prevalentemente in città. Quando era piccolo ha lasciato il luogo in cui viveva, la regione di Galguduud, per andare a studiare nel Benaadir. È andato da solo a Merca, da quelle parti, per studiare il Corano. All’epoca erano pochi quelli che conoscevano il Corano, erano tenuti in grande considerazione e venivano chiamati Aw [titolo onorifico dei Wadaad, i sapienti, ndt]. Dopo aver studiato è tornato nel suo paese e ha iniziato a insegnare. Ha insegnato per moltissimo tempo e a molte generazioni.
A me il Corano l’ha insegnato lui. Dopo un po’ che insegnava, la sua dugsi (scuola coranica) è diventata molto grande, gli studenti venivano da altre regioni, così come aveva fatto lui in precedenza. Finiti gli studi poi tornavano nel loro paese e aprivano lì una loro dugsi. Il suo insegnamento quindi si è propagato (sparso, diffuso) per molti luoghi. È vissuto a lungo. Aveva novantaquattro anni  quando è morto. Ma non ha smesso di lavorare quando era vecchio, ha continuato a  correggere [i suoi studenti] fino a quando è morto. Quando aveva novantatre anni  correggeva ancora, i suoi occhi vedevano bene. Continuava a correggere ed era lucido, non dimenticava niente. I suoi bambini imparavano il Corano e poi studiavano altre discipline. In passato non c’era uno stato, il paese era una colonia italiana. Poi la situazione è cambiata, e il paese è diventato indipendente. Lui ha insegnato a generazioni di bambini.
È diventato molto prestigioso. Ed era molto generoso. I bambini lo amavano molto, io lo amavo molto. Era un uomo di religione e anche nella vecchiaia ha continuato a leggere il Corano la sera. Siccome era anziano invocava su di me soprattutto benedizioni/precetti religiosi. Mi diceva sempre, io sono vecchio, ma tu sei giovane, guardati dai difetti della giovinezza. Diceva che a Dio stavano più a cuore i giovani rispettosi di Dio, rispetto ai vecchi vicini alla morte. Poi mi diceva che l’istruzione è qualcosa che va accumulato, perché c’è sempre qualcosa che non sappiamo. Diceva che nessun coetaneo doveva superarmi. I somali dicono kamaqnaw (mostrati o sottraiti, fatti da parte). Prima i somali erano nomadi. Il padre di mio nonno conosceva molto bene la religione musulmana, ed era andato in pellegrinaggio alla Mecca a piedi.
Mio nonno era tradizionalista. Non mangiava le cose che piacciono ai giovani come la pasta, gli spaghetti, amava molto la polenta di semolino e il latte di cammello, la carne di capretto e soprattutto la spalla. Noi eravamo bambini e ci piacevano le cose nuove. Lo zucchero e il latte zuccherato. Mi diceva di lasciar perdere lo zucchero. Infatti i somali non conoscevano lo zucchero prima, bevevano latte di cammello senza niente. Abitava in provincia di Ceeldheer nella regione di Galguduud. Si è ammalato e aveva bisogno di un controllo [medico]. Mentre andava in città la macchina su cui viaggiava è caduta in un dirupo, lui era vecchio e si è rotto un piede. L’hanno portato in Kenya per operarlo, ma mentre era a Nairobi e lo stavano per operare è finito il suo tempo. Quando una persona è anziana e il suo spirito se ne è andato in pace, diciamo che il suo tempo è finito, ed è finito bene.
Io sono cresciuto durante la guerra civile. Non ho mai visto il paese in pace. Sono cresciuto in un paese qasan (confuso, intorpidito, aggrovigliato, nota del tradutore), in cui ognuno aveva il suo fucile. Il primo insegnamento che riceviamo noi somali di solito ha a che fare con la religione, io ho iniziato a studiare il Corano e la religione, Kitaabo cilmi.
Ho frequentato la scuola inferiore e media. Il sistema scolastico somalo durante la guerra civile è scomparso completamente anche se c’erano delle organizzazioni che si occupavano dell’istruzione. Le scuole erano solo in arabo e in inglese. Quindi eri costretto a imparare prima la lingua, perché ogni materia veniva insegnata in una di quelle due lingue. Così ho imparato sia l’inglese che l’arabo, ma i miei studi li ho fatti in arabo. Non so nulla della storia somala, penso di non conoscere nessun paese bene come conosco l’Arabia Saudita, di cui ho studiato tutto. Per andare all’università bisognava conoscere l’inglese, per questo l’ho dovuto studiare.
Andavo a scuola e crescevo in un paese con la guerra civile. A volte c’erano degli scontri e poteva succedere di incontrare un uomo ferito a terra che ti chiedeva ‘portami via, portami via’, ma tu non eri in grado di fare nulla per lui.
Succedeva tante volte che ci fosse una sparatoria mentre eri in un’auto, oppure ci fossero scontri mentre eri a scuola e non potevi farci nulla, potevi morire anche semplicemente camminando per strada. Si andava avanti così, con questo pensiero, ti dicevi che non dipendeva da te se saresti vissuto o morto.
La situazione poi è peggiorata. Prima c’erano dei periodi di scontri, ma non duravano sempre. Due giorni e poi smetteva. Invece ora continuava, per mesi. Non siamo più riusciti ad andare all’università, ci siamo detti che bisognava fuggire [aa la qaxo, qax fuga, evacuazione, parola chiave della diaspora post guerra civile, ndt]
Allora abbiamo scelto il viaggio. Piuttosto di morire immobili, a quel punto era meglio morire per strada mentre tentavamo il viaggio. Era sempre più pericoloso. Ogni anno si ricominciava a sperare, verrà questo nuovo governo e tornerà la pace, verrà quest’altro governo. Sono venuto via. Ho passato l’Etiopia, il Sudan e il Sahara, il deserto, ma non parlerò di questo. Sono arrivato qui.

 

“Siamo venuti qui scappando da una situazione difficile” (F.)

(Db/CI 2) Per me questo paese non è una prigione. Non tutti abbiamo le stesse speranze o aspettative. Sulla costituzione di questo paese c’è scritto che siamo in una repubblica fondata sul lavoro. La prima difficoltà che si incontra arrivando qui è quella della lingua. Siamo come un bambino appena nato. Un bambino appena nato ha bisogno di diverse cose per crescere e per questo c’è bisogno di tempo. Siccome il caso mi ha portato qui e tutti coloro che si spostano lo fanno mossi da una necessità, quello che voglio dire è che poiché siamo qui, dobbiamo entrare a far parte di questa vita, di questa comunità.
Quando si dice stranieri, secondo me come somali siamo diversi dagli altri perché con gli italiani abbiamo un legame da lungo tempo, ci hanno colonizzato, ci hanno costruito il paese, le strade, i palazzi, noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti e viceversa. Tutti i nostri intellettuali e politici hanno studiato qui. Quando si dice che una persona è stata in Italia è una persona di valore. In quanto somali ci aspettavamo che l’Italia si occupasse di quello che sta succedendo nel nostro paese. Noi siamo venuti qui scappando da una situazione difficile e ci aspettavamo che l’Italia, proprio per questo antico vincolo che ci lega, ci accogliesse con riguardo. Invece mi sembra che tutto questo sia dimenticato.
Io sono nato nella regione di Hiiraan. Nella città di Beledweyn. Mi hanno detto che sono nato nel 1979. D’altronde è sempre qualcun altro che ti dice quando sei nato. La mattina andavo alla scuola normale e il pomeriggio alla scuola di Corano. Mi mettevo la divisa con la camicia gialla e i pantaloni blu. Quando avevo otto nove anni tra le due scuole rimanevo nell’officina di mio padre che era un fabbro. Mio padre voleva sapere quello che avevo imparato, mi controllava e mi picchiava. Soprattutto per la matematica. Così fino al 1991, ho continuato la scuola e quando ero libero aiutavo mio padre. Mi ricordo della mia città quando c’era la pace, era una città grande, la stazione di polizia funzionava, c’era la caserma dei militari, c’erano anche i guulwadeyaal, i miliziani (pionieri della vittoria).
La sera con gli amici andavamo al cinema, a mio padre non piaceva che andassi al cinema, quindi a volte mi picchiava. A volte c’erano dei film paurosi e scrivevano che chi aveva meno di 18, anzi 15 anni non poteva entrare. Per esempio c’era una scimmia grande che usciva dal bosco e uccideva le persone, proiettavano film di questo genere. Mio padre era un uomo di città, ma si preoccupava per me che ero piccolo, per questo non voleva che vedessi certi film. Poi nel 1991 è scoppiata la guerra civile. A me piaceva molto studiare, all’epoca mi mancava un anno per andare alla scuola superiore, quando il governo è caduto la scuola non c’era più, non funzionava più nulla come prima. Prima nelle scuole eravamo tutti insieme, somali di varie provenienze, invece quando il governo è caduto ognuno si è andato a rifugiare nel territorio di cui era originario il suo clan. Molti degli amici con cui andavo a scuola, il settanta per cento diciamo, sono partiti con le loro famiglie. Sono rimasto con pochissimi amici. Molti degli amici con i quali studiavo, giocavo a pallone, andavo al fiume, sono partiti. Ho iniziato a lavorare con mio padre nell’officina e ho imparato il lavoro. Quando ho visto che non potevo studiare mi sono molto demoralizzato, perché ero convinto che solo chi studia può migliorare la propria condizione e ricoprire ruoli di responsabilità (…).
È stata la somma di queste cose, la scuola che non potevo più frequentare, gli amici che se ne sono andati… Mi ricordavo come andavano le cose prima, quando ero bambino, se due litigavano venivano portati alla stazione di polizia. Quando non esisteva che ti fermassero per strada per chiederti chi sei? (cioè, a quale clan appartieni) dove sei diretto? Avevo paura e alla paura si è aggiunto questo problema familiare. Se parlo dei problemi familiari potrei andare avanti per ore. Sono successe varie cose tra cui che mio zio paterno fosse ucciso a Mogadiscio, mentre camminava.
Nel 1994 poi, la città in cui abitavo è stata presa da un altro gruppo, io sono scappato e ho camminato senza mai fermarmi, quasi correndo, per 60 chilometri. Sono partito alle tre di pomeriggio per arrivare in un villaggio in boscaglia.  Siccome appartenevo al clan estromesso ed ero un giovane uomo, avevo paura che mi uccidessero. Succedeva sempre che quando un clan prendeva un posto, uccideva tutti i maschi dell’altro gruppo. Sono arrivato a Buulo Buurte da un mio cugino e mentre stavo lì, dopo cinque sei giorni, il gruppo che aveva preso la mia città ha occupato anche quest’altra. Io ero per strada e mi chiedevo cosa fosse meglio fare, se tornare, se proseguire e ho cominciato a sentire gli spari. Allora mi sono buttato nel fiume per passare dall’altra parte. Ho lasciato le mie scarpe, tutto. Alcuni di quelli che si sono buttati nel fiume dopo di me, sono stati colpiti e sono morti.

 

“Volo camminando, cerco una via di uscita, lascio il mio paese” (D.)

(Db/4) Dulaayo soconaayaa /dhuxuntii aan doonaayaa/ dalkayga aan ka dhoofaayaa/ dirirta aan ka carrarayaa, ‘volo camminando, cerco una via di uscita, lascio il mio paese, fuggo dalla contesa’.
Noi ascoltavamo quelle parole e così dimenticavamo gli scontri, gli stenti, la mancanza di istruzione e di studio. I nostri nonni dicevano che gli italiani erano buoni, che loro li avevano già conosciuti, le nostre orecchie hanno sentito questo e siamo venuti in Italia. Quando siamo arrivati in Italia abbiamo trovato altro. La stanchezza che sentivamo, gli stenti che avevamo patito, quando siamo arrivati qui, non sapevamo la lingua, il giorno in cui siamo arrivati eravamo in 370 persone, ci hanno portati in una sala, i malati e i sani, tutti in una stessa sala. Trecento persone in una sala. Siamo rimasti più di un mese in quella sala. Anche voi siete passati di lì e sapete come si stava stretti. Il malato e il sano stavano insieme. Anche adesso indipendentemente dal vostro stato di salute vi hanno messo in quattro o cinque nella stessa stanza.
Sarebbe stato giusto visitare le persone, dire ai sani che stavano bene e curare i malati. Io stesso mi sono ammalato, sono stato in ospedale, mi hanno curato. Abitavo insieme ad altre persone che stavano bene, che hanno preso i documenti e li hanno lasciati liberi di andare per l’Italia, senza che sapessero la lingua e ora non si sa più niente della loro situazione.
Vado nelle mense dei neri per mangiare, mangio con loro. Sono per la maggior parte neri e rifugiati quelli che mangiano alle mense. Ci sono dormitori dove andiamo e ci dicono che non hanno posto, vado in un posto dove la maggior parte dei somali dorme la sera, senza acqua e luce, conoscerete l’ambasciata somala o la conoscerete quando non starete più qui. Anche questo centro è un posto isolato, senza scuola, senza medici, c’è solo una piccola farmacia per quando ti fa male la testa.
Le persone che sono venute prima di noi e sono andate in Svizzera o in Olanda, dicono che hanno avuto una casa e dei documenti, che li mandano a scuola, danno loro dei soldi. Qui in Italia nessuno ti dà un sussidio, ti aiuta, andiamo in una scuola perché ce l’ha indicata una ragazza somala molto brava. Sto cercando di imparare la lingua e di ambientarmi, vado ai centri per l’impiego e negli uffici per gli alloggi. Quando faccio domanda di lavoro mi chiedono qual è il mio diploma, io rispondo che non ho diploma ma solo il mio documento, e mi dicono che per fare un lavoro devo avere un diploma.
Mi hanno dato un titolo di viaggio. Ho pagato 127 euro per il documento. Noi ci aspettavamo, arrivando in Italia, di ricevere aiuto e invece anche il documento andava pagato. Quelli che ottenevano il permesso per cinque anni pagavano 208 euro. Il mio invece è di tre anni. Adesso hanno cambiato però, credo che si debbano pagare 47 euro. I documenti non si possono mangiare, non sono il tuo cibo, né il tuo letto, né la tua istruzione, i documenti non servono a nessuna di queste cose.
Io sono stato in Libia per un anno, per nove mesi sono stato in una prigione vicina a Bengasi. Se confronto i nove mesi in cui sono stato in prigione in Libia a questi otto mesi in cui sono in Italia in cui ho avuto i documenti e hanno accettato la mia domanda, preferisco quell’anno di prigione in Libia. La vita che facevo in prigione era migliore di quella che faccio oggi qui. Perché quando ero in carcere non avevo speranze, aspettative. Ero chiuso in una cella, mi davano il cibo attraverso quella cella e non potevo fare nulla. Ero un detenuto. Invece adesso nessuno mi detiene, mi hanno promesso che si sarebbero occupati della mia situazione, invece mi hanno detto tieni questi documenti, puoi rimanere qui, se vuoi un lavoro cercalo da qualche parte, salaam caleykum, ‘la pace sia con te’. Guardati dalla città. Non c’è casa, non c’è chi ti sostenga, una guida, vogliono solo sapere che tu sei in città. Vivi o muori, sono affari tuoi.
Il governo italiano, i suoi programmi, dovrebbe essere un paese che aiuta e sostiene i rifugiati, ma in questo tempo e nel tipo di vita che io ho visto, tutto questo non lo vedo. È solo un posto in cui la gente viene messa in difficoltà senza senso. Ci hanno preso le impronte e questo significa che il paese in cui le abbiamo lasciate ci deve sostenere, non puoi andare da nessuna altra parte, fino a quando non tornerai nel tuo paese. C’è un motivo per cui ho lasciato il mio paese e non ci posso tornare. Ma se la situazione non cambia, se non posso andare nei paesi in cui ci offrono un’opportunità di vita e se in questo paese non troviamo un’opportunità di vita penso che se nel mio paese ci fosse un periodo di pace, sarebbe meglio tornarci.
Per quanto mi riguarda queste leggi non sono rispettate. Ho i documenti da più di tre mesi e mi sono difeso (sono sopravvissuto) in questa città in cui vivo. La mia famiglia mi dice, ma sei arrivato lì, e non hai ancora trovato una sistemazione, un lavoro? Non ci puoi mandare qualcosa? Quando dico che questa situazione è peggiore di quella di quando stavo in carcere in Libia voglio dire anche che quando ero in carcere la mia famiglia non si aspettava niente da me. Ma adesso che sto qui e mi hanno dato i documenti, aspettano me. Mia moglie, i miei figli. Quando ero in prigione, pensavano semplicemente che il loro padre era in prigione, non era libero, invece ora si aspettano qualcosa da me, mentre sono io stesso a non avere nulla.
Il motivo per cui dicevo che era meglio la prigione in Libia della vita attuale è questa. Non mi aspettavo che una volta ottenuti i documenti sarei stato in questa situazione, così disorientato. Anche il fatto che mi abbiano riconosciuto solo tre anni significa che non mi considerano un rifugiato. Io sono venuto dalla Somalia, in tutti i paesi riconoscono l’asilo politico ai somali, i motivi per cui chiediamo asilo sono noti. Persino il fatto che ad alcuni riconoscano tre anni ad altri cinque non ha senso. Io non posso andare in nessun posto per via del trattato di Dublino, da qualsiasi paese mi rimanderebbero indietro.
Avete visto che vita faccio, qualche volta dormo per strada prima di venire a scuola con voi, a volte rimango qui con voi di nascosto, la nostra vita in Italia è così. Possiamo solo sperare che i nostri compaesani somali ci aiutino e se non ci aiutano, possiamo chiedere solo di tornare in Somalia.

 

“Io non chiedo nulla, è la nave che mi ha portato qui” (G.)

(Db/4) Mi hanno chiesto cosa chiederei agli italiani. Io non chiedo nulla, è la nave che mi ha portato qui, io andavo verso l’Inghilterra!