di Hassan O. Ahmed
Il diario Ritorno a Mogadiscio è stato redatto da Hassan Ahmed durante una visita effettuata nel suo paese natale nel gennaio 2017 dopo 27 anni di assenza. Nel 1991 Hassan aveva dovuto interrompere le sue ricerche di dottorato sulla storia della città di Merka a causa della guerra civile che aveva colpito la Somalia alla caduta del dittatore Siad Barre. Di questa esperienza Hassan aveva tenuto una prima scrittura diaristica apparsa sotto il titolo Morire a Mogadiscio come Quaderno 2 di Africa e Mediterraneo (Ediz. Lavoro 1993).
Ritorno a Mogadiscio è stato segnalato da AMM per il Concorso DiMMi-Diari Multimediali Migranti ed è stato premiato a Pieve S. Sterfano nell’estate 2017. I due diari riuniti in un volume sono in corso di pubblicazione presso Ed. Efesto.
Gennaio 2017. Sto partendo con urgenza per la Somalia per andare a trovare mia madre a Beledweyne che si trova in ospedale in coma ed è assistita da mia sorella Fahmo e da tutti i parenti. Mi comunicano che la situazione in Beledweyne non è buona, c’è il coprifuoco dalle cinque della sera fino all’alba, mia sorella cerca di scoraggiarmi a partire. Avevo deciso di non mettere più piede in Somalia, ma ora ci devo ritornare dopo ventisette anni di forzato esilio. La malattia di mia madre e il ricovero d’ urgenza in ospedale, mi da’ il coraggio di lasciare il mio sicuro rifugio di Melbourne. Prima della partenza, mia moglie Udi Khalif mi ha regalato un’agendina, che sulla copertina porta il titolo: To Travel is To Live, con la raccomandazione di annotare le mie impressioni. Anche lei sa che la situazione in Somalia è instabile e può succedere di tutto. Mi raccomanda in particolare di stare alla larga dagli alberghi, che sono l’obiettivo di al-Shabaab e di non andare mai in giro per la città da solo. Che dio me la mandi buona!
7.1.2017
Safari Hotel
(…) Il Safari Apts è un palazzo di otto piani con 46 appartamenti. È moderno e confortevole. L’appartamento di Ali ha cinque camere da letto, tre bagni, cucina e salotto. Ad accogliermi ci sono mezza dozzina di collaboratori e amici. Vengono quasi tutti dall’estero dove vivono con le loro famiglie. Questi “stranieri” vengono chiamati diaspora dai somali. Sono tornati in migliaia in patria con il desiderio di reinserirsi nella società somala. Cercano lavoro nelle agenzie delle Nazioni Unite o nel governo. Alcuni di loro mi conoscono perché ci frequentavamo a Londra. Dopo i saluti e le presentazioni che in Somalia sono lunghe e meticolose, mi ritiro in camera da letto e crollo dalla stanchezza. Sono in viaggio da trentasei ore.
La sera esco con gli amici per un tè al Safari Hotel. Mi stupisce che sia affollato, ci saranno circa un centinaio di persone. L’ambiente è rilassato, anche se per entrarvi si viene perquisiti ed esaminati con il metal detector. La sera viene turbata da due esplosioni molto forti. Nessuno dei presenti sembra dare importanza al fatto, neppure i miei amici, che continuano a sorseggiare il tè. Solo uno cerca informazioni per telefono, ma come succede in questi casi, tutte le linee sono intasate. Dopo qualche minuto veniamo informati che le esplosioni sono avvenute nell’area che porta ancora il nome italiano di Tribune, dove un tempo si facevano le sfilate militari. Non ci sono dettagli, ma questo apre discussioni interminabili sulla sicurezza. Si parla degli attentati della scorsa settimana scorsa: uno vicino all’aeroporto e l’altro nei pressi del Peace Hotel, che ha provocato otto morti e distrutto una ventina di abitazioni. Si parla di conoscenti morti negli attentati o feriti seriamente.
Molte delle vittime appartengono alla diaspora, perché di solito i rimpatriati alloggiano negli alberghi credendo di stare al sicuro. La sicurezza è infatti uno dei temi più scottanti in città. Sembra di vivere in una città assediata da un nemico invisibile. Tutti i palazzi governativi e le case dei politici sono circondate da spesse barriere di cemento armato, sormontate da filo spinato elettrificato e protette da guardie armate, dal grilletto facile.
Mentre stiamo chiacchierando sentiamo colpi di arma da fuoco. Le guardie sono molto nervose e se vedono avvicinarsi persone sospette, sparano in aria; per tenersi sveglie devono masticare in continuazione il khaat, la droga nazionale.
Torniamo a casa a piedi. Le strade sono piene di gente, nonostante l’ora tarda. Al Safari, nonostante che i miei amici siano conosciuti dalle guardie, veniamo perquisiti con il metal detector. La prudenza non è mai troppa. Così si conclude la mia prima serata a Mogadiscio.
Il Safari Apartment dove abita mia nipote è della stessa compagnia che possiede anche il Safari Hotel e il Safari Village. E’ protetto da due muraglie, una di sacchi di sabbia (sand wall) all’esterno e una di cemento armato all’interno per proteggersi contro i carri bomba. Le mura sono sormontate da cavi di alta tensione. Ci sono circa una ventina di guardie armate. Nessuno puo’ entrare senza essere perquisito. Il palazzo ha un garage sotterraneo, energia elettrica e acqua corrente. Ali, nonostante sia scapolo, vive in un appartamento molto grande che gli permette di ospitare anche i suoi collaboratori. Il suo bagno privato, oltre alla doccia, è dotato anche di una vasca Jacuzzi, ma non credo l’abbia mai usata perché l’acqua costa un occhio della testa. L’edificio di notte è illuminato molto bene. All’interno c’è un giardino con il prato all’ inglese tenuto molto bene. Una curiosità: all’esterno si aggira una coppia di cani randagi, che non so come siano sopravvissuti in tutti questi anni di guerra.
La mia prima impressione è che Mogadiscio sia una città che vive nella paura e che quindi la sicurezza sia un grosso business. La paura ha contagiato tutti e gli amici mi hanno fatto notare che non ci sono indicazioni scritte e tutte le società, compagnie, uffici pubblici e privati risiedono in palazzi del tutto anonimi. Le poche ambasciate aperte non hanno bandiere o targhe con le loro denominazioni. Non esiste un elenco telefonico, per cui è impossibile contattare gli uffici governativi o le agenzie internazionali, se non si conosce qualcuno al loro interno.
16.1.2017
Telefonini.
Oggi in Somalia, quasi tutti hanno il telefonino, molti addirittura 2 o 3. Col telefonino non solo si è in comunicazione con il mondo, ma anche si fanno affari. Hormuud, che significa avanguardia, è la più grossa compagnia somala di telecomunicazioni, che oltre a fornire il servizio telefonico ed internet, è anche una banca. Se apri un conto, ma solo in dollari americani, puoi pagare tramite il telefonino, così nessuno fa più uso di contante. Persino i poveri hanno il cellulare e portano al collo un cartello con il numero telefonico e quando chiedono l’elemosina dicono wax i soo tuur, cioè invia qualche dollaro sul mio cellulare! Incredibile ma vero! Però il telefonino ha anche un aspetto negativo. Prima la gente si incontrava e aveva tutto il tempo per conversare e scambiarsi punti di vista. Oggi sono tutti occupati al telefono. Ma ai somali piace immensamente telefonare sia in Somalia che all’estero. Così se sei con amici o parenti, il dialogo si interrompe in continuazione, per rispondere ad una chiamata o per leggere messaggi. Se uno non riceve chiamate per qualche ora, va in paranoia e comincia a bombardare con chiamate amici e conoscenti. Le suonerie sono sempre a volume elevato. In tutte le moschee si raccomanda di spegnerle, ma c’è sempre chi si dimentica, così nel bel mezzo della preghiera, scatta inesorabilmente qualche suoneria. Molte persone non hanno ancora capito che le telefonate sono un affare personale, parlano di cose intime ad alta voce, credendo che la persona li senta meglio, senza il minimo riguardo per gli altri. Quando mia madre era in coma, dovevo pregare la gente di uscire dalla stanza per rispondere al telefono. Sempre più gente usa il WIFI portatile, così possono comunicare con l’estero usando WhatsApp o IMO, per tenersi in contatto con parenti e amici. Noi abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere condoglianze da parenti e amici che vivono in diverse parti del mondo. E’ incredibile che un piccolo oggetto tascabile possa mettere in contatto gente sparsa per il mondo. In questo momento ricevo una telefonata da mia sorella che si trova a sistemare la tomba della mamma e mi mostra in video-call, il lavoro fatto.
19.1.17
Diaspora.
(…) Ogni giorno vado a gustarmi un caffè al Bar Italia. Appartiene a Yusuf, un signore che è vissuto molti anni a Padova dove lavorava in un ristorante come aiuto cuoco. A Mogadiscio possiede numerosi bar e ristoranti con cucina italiana. Oltre al caffè, a volte mi gusto anche un buon gelato, come solo Yusuf sa fare. Il Bar Italia, si trova sulla Maka Mukarrama Road ed è frequentato dalla diaspora. Vengono da tutte le parti del mondo e si ritrovano tutti quaggiù. E’ curioso sentire le loro storie. Mohamed è ritornato dal Canada poco tempo fa. Ha investito i suoi risparmi per riparare e ingrandire la sua casa che si trova proprio di fronte all’Hotel Ambassador. Si trovava un giorno nel suo studio quando una violenta esplosione ha semidistrutto la sua casa. È stato ore sotto le macerie prima di essere soccorso, per fortuna indenne. Quando è uscito in strada ha visto che erano già iniziati i lavori di ricostruzione dell’albergo. Ha fatto notare a un poliziotto che su un albero del viale pendeva una gamba e si è sentito rispondere che quella era la volontà di Allah. Non altrettanto bene, infatti, era andata alla donna che vendeva il tè sul marciapiede vicino a casa sua, la gamba finita tra i rami di un albero, le apparteneva. Tra le numerose vittime dell’albergo, molti erano della diaspora.
Gli hotel sono un obiettivo fisso di al-Shabaab, perché ospitano gente ricca e membri del governo. Per proteggerli dalle esplosioni, sono stati messi enormi sacchi di sabbia e filo spinato che deturpano la città e creano un senso di insicurezza. Secondo me, molti della diaspora che rientrano sono pronti ad investire anche in attività industriali, ma ci sono molti fattori che devono essere risolti come: l’instabilità politica, la mancanza di sicurezza, l’assenza di leggi per il regolamento delle attività commerciali e industriali, il sistema bancario inadeguato e non ultimo la corruzione dilagante. Qui la chiamano facilitazione, bisogna sempre pagare qualcuno e questo è nella norma.
Ieri sera mentre ero in terrazza a godermi il fresco, è entrato nel nostro compound un SUV di grossa cilindrata. I miei amici hanno tenuto a spiegarmi che era una macchina a prova di proiettile e costava 100 mila dollari. Apparteneva a un pezzo grosso del governo.
25.1.17
Ogni mattina, dopo la preghiera dell’alba, mi siedo sulla terrazza a godermi il sorgere del sole sul mare. Piano piano il palazzo si risveglia. Le guardie del turno di notte vengono sostituite, le donne di servizio arrivano alla spicciolata portando le buste della spesa, vestono tutte col hijaab e il niqaab. Tutte vengono perquisite da una ragazza della sicurezza e i sacchetti controllati. Ogni mattina un vecchietto da’ da mangiare ai cani randagi che passano la notte davanti al cancello. Poi arrivano le scorte armate per accompagnare i parlamentari e altre personalità in ufficio. È un momento delicato e c’è molta allerta. Il Safari è una residenza di massima sicurezza e non ha ancora subito attentati, a differenza degli alberghi dove sono stati uccisi, solo negli ultimi 4 anni, 16 deputati e numerose guardie del corpo. Io non ho nulla da temere, sono solo lo zio di un parlamentare e ripeto a me stesso che non sono un obiettivo sensibile, almeno per ora. Alle 8 poi entrano le donne di servizio che ci preparano la colazione alla somala: fegato di capretto fritto con cipolle e peperoni, canjeero, una focaccia, tè aromatizzato e caffè con zenzero. Di solito vado a piedi fino al Bar Italia, dove mi aspetta Abdiwahab. Ci prendiamo un buon espresso e poi andiamo ad esplorare questa città che non riconosco più. Oggi, abbiamo deciso di fare un giro nel centro storico.
All’improvviso sento una forte esplosione che fa tremare il palazzo. Mi affaccio al balcone e vedo una colonna di fumo denso in direzione della via Maka Mukarrama, dove ci sono numerosi alberghi. Le guardie sono in agitazione. Ricevo una chiamata da Ali che mi consiglia di non muovermi da casa. Poi Abdiwahab, che abita vicino al luogo dell’esplosione, mi comunica che l’esplosione è avvenuta vicino all’Hotel Dayah e mi invia le prime foto dell’attentato dinamitardo. Siamo tutti molto preoccupati, perché dopo la prima esplosione ne segue sempre una seconda che colpisce i soccorritori. Dopo 20 minuti sentiamo un’altra esplosione ancora più forte. Vengo preso da un tremore incontrollabile e mi sdraio sul letto. Siamo preoccupati per il nostro amico Mohamed che vive dietro l’hotel preso di mira da al-Shabaab. Ci mettiamo in contatto con lui. L’esplosione ha semidistrutto la sua casa, per fortuna aveva appena accompagnato i figli a scuola, e ora è al sicuro da sua sorella. Ci spiega la dinamica dell’attentato. Un camion per il trasporto del carbone ha tentato di forzare l’entrata dell’Hotel Dayah, ma è esploso davanti ad un ristorante pieno di clienti, poi è sopraggiunta una macchina da cui sono scesi 4 terroristi che hanno tentato di entrare nell’hotel ma sono stati uccisi dalle guardie. La polizia ha circondato la zona cercando di tenere lontano i curiosi. La seconda esplosione ha provocato morti e feriti tra i soccorritori e i giornalisti, come avviene spesso in questi casi. Tutte le case e i negozi vicino all’hotel hanno subito danni: ci sono stati circa 30 morti e una cinquantina di feriti. Le protezioni anti-bomba (wall sand) dell’hotel hanno retto all’urto, però le case e i negozi vicini sono crollati ed è divampato anche un grosso incendio che ha coperto il cielo di fumo denso. Arrivano le prime immagini on line, la devastazione è impressionante. Le ambulanze fanno spola verso gli ospedali e i pompieri cercano di domare gli incendi e recuperare le salme.
Esco per andare a trovare Aidarus, un nipote di Udi, ricoverato nell’ospedale Aden Abdulle, vicino al Safari. Il traffico è caotico come al solito e la gente è seduta nei bar o affaccendata nei loro business, come se niente fosse successo. Si tratta solo di una giornata di ordinaria follia. Tutti si aspettavano un attacco terroristico, che avviene con cadenza mensile. Ecco infatti che è avvenuto! E la vita continua. E continuano anche le sparatorie che mi fanno venire attacchi di panico. Ultime notizie: vengono confermati 30 morti, compresi i 4 terroristi e 50 feriti. Al momento dell’esplosione nell’Hotel Dayah erano presenti 50 deputati tutti della tribù Dighil-Mirifle e 3 ministri, grazie a Dio, tutti illesi.
26.1.17
(…) Tutti ora parlano dell’attentato di ieri all’hotel Dayah. Si dice persino che al Shabaab taglieggi i proprietari degli alberghi e se non pagano il pizzo, usano il sistema mafioso di distruggere l’edificio o uccidere il proprietario. I miei amici portano un esempio recente di un commerciante molto ricco che ha ignorato la richiesta di denaro fattagli al telefono. Come primo avviso, gli hanno fatto esplodere la macchina con una bomba; la seconda volta hanno bloccato la sua macchina per strada e l’hanno ucciso a colpi di pistola. La polizia sta ancora indagando, ma c’è molta omertà e i testimoni sanno che è meglio tacere che finire morti ammazzati.
3.2.17
Harakat Al Shabaab Al Mujahideen (Movimento dei Giovani Jahidisti)
Dal primo momento che ho messo piede a Mogadiscio, ho cominciato a respirare la paura allo stato puro: la paura di un pericolo palpabile ma invisibile, onnipresente e inafferrabile. Il suo nome è sulla bocca di tutti: al-Shabaab, i Giovani, una ramificazione di Al Qaeda in Somalia, nata nel 2006 in seguito alla sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche (UCI). In Somalia, Al Shabaab ha dominato in tutte le regioni fino all’arrivo delle truppe AMISOM che insieme all’esercito somalo, hanno liberato tutte le città, mentre molte aree del sud sono ancora sotto il loro dominio. Sono organizzati come uno stato nello stato: hanno la loro radio, Andulus Radio, che trasmette senza interruzioni informazioni e propaganda religiosa e curano un website: somalimemo.net. Al Shabaab ha un ministero dell’educazione, Madrasah, dove si insegna solo la lingua araba e la religione islamica; Abniyah, invece è il ministero responsabile della sicurezza; Sakawat dell’economia. I giovani che si arruolano vengono addestrati nell’Accademia militare intitolata a Khaalid Bin Walid, un grande eroe dell’Islam. Si pensa che il loro esercito raggiunga le 6 mila unità e sono per giunta ben equipaggiate. Comunicano con i cellulari e le radio ricetrasmittenti, e hanno accesso ad internet. Si sospetta che fossero anche in combutta con la pirateria che agiva nei territori sotto il loro controllo e che pretendesse il 20% del ricavato.
A Mogadiscio la lista degli alberghi e palazzi governativi colpiti ripetutamente è lunga e purtroppo si allunga senza interruzione ogni mese. Il Shaamow Hotel è stato uno dei primi ad essere colpito da un kamikaze travestito da donna, durante la consegna dei diplomi di laurea della Mogadiscio University, il 3 dicembre 2009. In quell’occasione persero la vita 24 persone, tra cui 15 studenti e ben 4 ministri. Poi l’Hotel Muna, 32 morti di cui 6 deputati. Nella lunga lista compaiono gli hotel: Mogadiscio, Dayah, Ambassador, Maka Mukarrama, SYL, Jasiira, Sahafi, Siyaad, Peace, Weheliye, Lido Beach, Madiina, Naasa-Hablood, Central. Alcuni colpiti più volte. A questi si aggiungono Villa Somalia, la residenza del presidente, ripetutamente colpita da terroristi travestiti da militari, il Teatro Nazionale, il Village Restaurant, l’Ambasciata Turca, il Ministero del Petrolio, il Tribunale, l’UNDP, Il Parlamento, il Criminal Investigation Department (CID), il porto, l’aeroporto e il Ministero dell’Educazione Superiore. Mio nipote Ibrahim si trovava nel bar dell’Hotel Ambassador, quando è esploso il carro bomba. Nel fuggi fuggi, ha avuto l’accortezza di salire in camera e chiudersi nel bagno, poi chiamare tutti i parenti per allertare la polizia. Per fortuna rimase illeso, poi mi ha spiegato che in caso di attentato, non bisogna stare al pian terreno, perché è il bersaglio più facile e neppure all’ultimo piano perché i cecchini lo usano per colpire le forze dell’ordine. Ma soprattutto, spegnere il cellulare, per non attirare l’attenzione dei terroristi, che a volte hanno il numero delle loro vittime.
Il mio amico Yassiin, credo che abbia il record di sopravvivenza ad attentati terroristici. Nel 2009 era all’Hotel Shaamow a pochi metri dall’esplosione e ne uscì illeso; nell’Hotel Siyaad si è salvato una prima volta barricandosi in camera con i terroristi che da fuori cercavano di forzare la porta, una seconda volta lanciandosi dal secondo piano, procurandosi fratture multiple a tutte due le gambe. Portato d’urgenza a Nairobi, perché a Mogadiscio gli volevano amputare le gambe, dopo diverse operazioni e innesti di chiodi, ha ripreso a camminare. Pochi mesi dopo, mentre era a cena al Sea Food Hotel al Lido, c’è stata l’esplosione di una bomba nascosta in un computer e, subito dopo, l’attacco di miliziani al-Shabaab. In quell’occasione riuscì a fuggire sulla spiaggia ma fu raggiunto e colpito al petto. Si è salvato fingendosi morto. Gli è rimasta una cicatrice di 15 centimetri appena sotto il capezzolo destro. Nel gennaio del 2016, si trovava a letto in casa, vicino al porto di Mogadiscio, quando, dopo l’esplosione di un camion che ha provocato 40 morti, gli è crollato il tetto addosso. Per fortuna, solo escoriazioni alle braccia e alla testa, nel tentativo di ripararsi la faccia.
(…)
14.2.17
La mia avventura somala è finita e mi dispiace lasciare Mogadiscio dove ho vissuto un periodo intensamente bello. Per fortuna sono arrivato in tempo per vedere mia madre ancora viva e partecipare al funerale. Ho rivisto il paese della mia infanzia dopo mezzo secolo e ho apprezzato l’amicizia e la solidarietà di parenti e vicini. A Mogadiscio ho goduto dell’ospitalità di mio nipote Ali e festeggiato la sua nomina a membro del Parlamento Federale Somalo. Ho ascoltato molte persone per cercare di capire come funziona la politica tribale somala e che implicazioni avrà per il futuro del paese. Ho vissuto l’eccitazione della nomina del nuovo presidente Abdullahi Farmajo. Ho imparato a conoscere la città di Mogadiscio che si sta riprendendo dopo decenni di guerra e disordine politico. Purtroppo non ho potuto mettere piede fuori città, perché al-Shabaab controlla ancora larga parte della Somalia. Ho potuto constatare di persona le conseguenze delle guerre e della siccità che hanno spinto centinaia di migliaia di persone a cercare assistenza nella capitale, provocando il fenomeno dei rifugiati interni. Però ho conosciuto anche la nuova Somalia, creata da ex profughi che hanno fatto ritorno in patria, desiderosi di partecipare alla sfida di creare dal nulla attività come: ospedali, scuole, industrie e anche partecipare al rinnovamento politico del paese. Infatti: sia il presidente, sia il primo ministro che la maggioranza dei parlamentari appartengono alla diaspora. Questa è la contraddizione di una Somalia che da un lato è ancora influenzata da una obsoleta tradizione tribale, legata alla cultura del cammello e dall’altro cerca di aprirsi alla modernità. Una modernità irrinunciabile, che non è più imposta e copiata dall’uomo bianco o dall’Occidente, ma è stata vissuta e assimilata da milioni di somali della diaspora. Questa è la grossa contraddizione per il futuro, la Somalia a due marce. E poi ci sono i nostri figli nati e cresciuti in Occidente che sono alla ricerca di una identità che non riescono a trovare in Somalia. Allora ricorrono ai social-network per far sentire la loro voce. Per ora hanno deciso di restare nella patria di adozione, perché per loro non c’è spazio in una società tribale che non li capisce e non li accetta.