Storia di Hawani

La storia di Hawani Debella è stata una delle prime interviste partecipate fatte a una donna oromo in esilio dopo la salita del Derg al potere in Etiopia nel 1974. La storia è stata registrata da una storica keniana Aneesa Kassam, nel 1994 ed è apparsa nel volume Being and Becoming Oromo a cura di  Paul Baxter, Ian Hultin e Alessandro Triulzi due anni dopo (Hawani Debella and Aneesa Kassam, “Hawani’s Story” NAI, Uppsala 1996, pp. 26-36). Si pubblica qui la traduzione italiana della storia per le importanti annotazioni di metodo che la precedono e per l’esemplare presa di parola da parte di una giovane donna oromo nella temperie politica dello Stato etiopico che, a distanza di venti anni, non accenna a diminuire.

La storia di Hawani è stata tradotta a più mani dal primo gruppo di volontari che sarebbe poi confluito in Asinitas e AMM e allora collaborava con Medici contro la tortura attraverso interviste di gruppo e cerchi narrativi. La storia di Hawani e il suo metodo partecipativo furono di ispirazione nella lunga intervista a Taiba, la prima donna oromo che incontrammo insieme al figlio Robera, nei primi anni 2000, da cui Cecilia Bartoli ha poi tratto il racconto per ragazzi Gli amici nascosti (Topipittori, Milano, 2014).

 

Annotazioni di metodo
(Aneesa Kassam)

Questo documento di storia di vita è stato registrato nella casa di Hawani Debella a Londra, la sera del 13 agosto 1994. Hawani adesso ha vent’anni e cercava asilo in Gran Bretagna nel 1990, dove ha vissuto da allora. Ho incontrato Hawani la prima volta durante una visita in Inghilterra nel 1992, e fui subito colpita dall’immenso coraggio con cui una persona così giovane stava vivendo la sua vita in esilio. Hawani divenne poi una stretta amica di famiglia. Parte delle esperienze che lei racconta erano quindi già a me note da precedenti discussioni informali avute con lei. In questa occasione, tuttavia, ho voluto registrare la sua storia in modo più formale. Il suo compatriota amico e mentore Gemetchu Megerssa è stato presente a questa e ad altre occasioni e ha facilitato lo scambio. I giorni precedenti chiesi ad Hawani di riflettere sulla sua situazione e di raccontarmi come si sentiva ad essere una giovane donna Oromo in esilio. Hawani fu felice di soddisfare la mia richiesta. Dopo aver discusso sul modo migliore di registrare la sua storia, Hawani sentì di poter narrare, con maggiore fluidità in Amarico, le esperienze vissute da bambina. Durante la narrazione, riferendosi ad incidenti familiari capitati sia a se stessa che a Gemetchu, parlò in Oromo e, a mio beneficio, qualche volta in inglese. Gemetchu ha trascritto l’intervista che ne è risultata e mi ha assistito nell’edizione del testo. Hawani era visibilmente commossa dagli eventi che richiamava alla memoria e l’emotività del narrare ha rafforzato e rinsaldato il legame fra noi tre presenti. I dettagli della narrazione sono stati controllati e chiariti con Hawani in molte occasioni dopo l’intervista. Una bozza del documento finale è stato dato anche a lei per eventuali commenti e la sua approvazione. Le note a chiarimento di punti nella narrazione sono state fatte con l’assistenza di Gemetchu, visto che la mia personale esperienza dell’Etiopia è indiretta e limitata ad una sola visita nel 1984. Negli ultimi anni ho comunque parlato a numerosi altri Oromo in esilio circa la loro esperienza di Oromo durante il periodo nel quale ha avuto  luogo la storia di Hawani . Gli incidenti narrati in questi resoconti corrispondono strettamente a quelli evocati da Hawani. Essi sono quindi una parte della realtà sociale passata e presente degli Oromo nel loro complesso.

Registrando la sua storia, non desideravo solo catturare il tormento all’interno del quale l’attuale generazione Oromo è nata, ma anche osservarlo dal punto di vista di una giovane donna Oromo. Sebbene mi fosse stata offerta l’opportunità di presentare l’esperienza, forse più ricca, in termini di profondità storica, di un importante soggetto maschio nella lotta degli Oromo, ho scelto di lasciar raccontare ad Hawani il proprio resoconto degli eventi. Con questa scelta cercavo di rettificare lo squilibrio del mio lavoro e quello generale degli studi sugli Oromo, che hanno sempre teso nel loro complesso a privilegiare il punto di vista maschile. Attraverso la storia di Hawani volevo far sentire la voce delle donne nella battaglia degli Oromo.

Senza ulteriori preamboli, quindi, lascio ora Hawani raccontare la sua storia.

 

La mia storia
(Hawani Debella)

Sono nata nel 1974. Il mese era giugno. Né mio padre né mia madre lavoravano in quel periodo. Mia madre si è sposata presto: aveva diciott’anni quando sono nata. Il mio luogo di nascita è Addis Abeba. La rivoluzione che rovesciò il re arrivò un anno dopo la mia nascita. La rivoluzione portò un grande sconvolgimento alla mia famiglia e ai miei parenti. I parenti materni, che vivevano nella regione di Ambo, insorsero e andarono a vivere in montagna[1]. Mio nonno fu ucciso da un Amhara. Quest’uomo è indicato come rappresentante dell’autorità di governo locale conosciuta come qabale.  Anche lo zio di mia madre, che fu eletto dalla popolazione locale quale presidente di un’associazione di contadini, è stato assassinato dalle autorità di governo locale. Un altro parente di mia madre, che vendicò l’assassinio di suo fratello, è stato rinchiuso per nove anni nella prigione di Ambo. Subito dopo anche mio padre fu arrestato a Addis Abeba e detenuto in un carcere conosciuto come il “Triangolo delle Bermuda”[2]. Ha passato due anni in questa prigione. Tutto questo l’ho saputo da mia madre più tardi. Ero troppo giovane per sapere cosa stava accadendo.

La prima cosa che ricordo chiaramente fu l’arresto del fratello maggiore di mia madre. Era un laureato dell’università di Addis Abeba. È stato arrestato sul suo posto di lavoro. Sua moglie, che era incinta del loro primo bambino, arrivò da mia madre con le brutte notizie. La sera stessa fu arrestata anche lei. Entrambi mia zia e mio zio sono rimasti in carcere per più di nove anni e il loro figlio è nato e cresciuto in prigione.

Questi dieci anni sono stati un incubo per l’intera famiglia. Tutti noi siamo stati perseguitati dalle autorità locali di governo, in particolare dalla Qabale. Tormentarono ogni persona legata alla nostra famiglia. Essi si riferivano a noi come zernya Galla (“Galla razzisti”). Anche a scuola, i ragazzi e le ragazze Amhara che conoscevano la posizione della nostra famiglia ci provocavano e schernivano continuamente. Chiamavano mia sorella e me con brutti nomi. Si dividevano in due gruppi. Un gruppo gridava “coca-cola!”. L’altro gruppo ci indicava e gridava farii Galla (“codardi Galla”).  Questi sono solo alcuni degli insulti che ci lanciavano. Ho vergogna anche del solo riferire gli altri.

Ma erano mia madre e mia nonna che soffrivano di più. I prigionieri non erano nutriti in prigione. Erano le donne che si facevano carico di portare da mangiare ogni giorno ai prigionieri. Mia madre visitava la prigione a giorni alterni. I prigionieri che lei curava erano distribuiti in diverse carceri. Qualche volta i prigionieri venivano spostati senza preavviso da un carcere all’altro e non si poteva essere sicuri che il cibo gli fosse arrivato. Passava l’intera settimana correndo da un carcere all’altro. Quando tornava a casa la sera e ci raccontava come era stata trattata dalle guardie carcerarie, non era molto diverso dal modo con cui io e mia sorella venivamo trattate a scuola. Mi faceva piangere.

Diventata più adulta, cominciai ad accompagnare mia madre nelle sue visite alle carceri, specialmente nel fine settimana. È difficile raccontarti in parole come mi sentivo durante queste visite. Era terribile vedere mio zio fermo in piedi dall’altra parte del recinto e non poter nemmeno toccare la sua mano. Era terribile guardare mia madre piangere impotente senza sapere cosa poterci fare. Sentivo come se tutto il mondo si fosse rivoltato contro di noi. E quindi ho lentamente realizzato che ci stavano trattando in questo modo perché eravamo Oromo. È uno strano sentimento, sentire di non essere voluti. Avevi questo sentimento nel quartiere in cui vivevi; lo sentivi a scuola; lo sentivi quando andavi al mercato. Lo sentivi quando andavi in chiesa e quando andavi al lavoro. Era dappertutto. Ti faceva aver paura di tutti, ti faceva dubitare di tutti, odiare tutti, anche te stessa.

Quando andavamo a far visita a mio zio, le guardie del carcere ci dicevano: “Allora! Siete venuti a trovare quel razzista Galla (yaanin zaranya Galla)”. Non trattavano nessun altro prigioniero in quel modo. Le donne Oromo che venivano a far visita ai loro parenti erano perquisite dai guardiani maschi e soggette a trattamenti umilianti. Le guardie toccavano le loro parti intime e chiedevano se erano circoncise. Come posso raccontarti tutti gli insulti che abbiamo subito durante quelle visite?

Come vedi, sono nata nel momento sbagliato, forse anche nel giorno sbagliato, come dicono gli Oromo. Sono nata proprio in questa terribile situazione e ci ho vissuto fino a che non ho lasciato l’Etiopia.

Ciò che era ancora peggio, era che anche alcuni dei nostri parenti cominciarono a evitare la famiglia. Loro sapevano che la nostra famiglia stava lottando contro il governo per la liberazione degli Oromo, e avevano paura di essere associati a noi. Stavano lontano da noi per paura delle loro stesse vite. Ovviamente alcuni mandavano denaro alla famiglia tramite una terza persona e chiarivano perché non potevano venire e darceli loro stessi. Ma ti faceva sentire come se avessi una malattia contagiosa e che avessero tutti paura di venirti vicino.

È vero che gli Oromo non erano il solo gruppo di persone imprigionate. C’erano anche prigionieri eritrei e tigrini. Ma gli Oromo venivano trattati diversamente. Quando un Eritreo o un Tigrino veniva incarcerato o fucilato era riportato nelle notizie. Leggevi dell’arresto sul giornale o lo sentivi alla radio. Nel caso degli Oromo nessuno sapeva nemmeno che eri stato arrestato. Lo sapevi solo indirettamente. I prigionieri eritrei e tigrini non venivano mai chiamati zaranya o razzisti.

Come diceva mio zio, quando non stai bene e i tuoi parenti ti vengono a trovare in ospedale, ti senti meglio. Ti senti amato. Lui diceva che per i prigionieri era lo stesso. Il prigioniero vuole che tutti i suoi parenti e amici sappiano cosa gli sta succedendo. Vuole che lo si vada a trovare. Queste visite sono il solo contatto che ha con il mondo esterno e con la gente che conta per lui. Sai quant’è terribile essere malato e solo. È anche forse peggio essere un prigioniero è essere completamente tagliato fuori dai tuoi parenti. Non ci sono parole per descrivere come ci si sente. Nessuna notizia veniva data sui prigionieri oromo; nessuno sapeva di te dalla radio o leggeva di te sul giornale. Eri completamente isolato.

Forse era ancora peggiore essere una donna oromo in questa situazione. Una madre non è come gli altri parenti. Lei non può voltare le spalle ai suoi figli in prigione. Le donne oromo dovevano sopportare grandi difficoltà per nutrire i loro figli in prigione. Hanno sofferto umiliazioni e trattamenti disgustosi dalle guardie carcerarie per restare in contatto con i loro figli e le loro figlie. Dopo tutto, questi figli erano la loro carne e il loro sangue, li hanno portati nel loro grembo per nove mesi e se ne sono occupati dall’infanzia.

Mio zio è stato arrestato subito dopo essersi laureato all’università. Era così giovane. Aveva appena iniziato la sua vita lavorativa. I suoi genitori e i suoi parenti speravano che ora potesse condividere alcune responsabilità nella cura dei più giovani e dei più anziani. Invece finì in prigione e passò dieci anni della sua vita lì. Pensa, dieci anni della vita di una persona spariti, così. Perlomeno gli adulti sapevano perché erano in prigione, cosa ci facevano lì. Ma un bambino innocente? Mia zia diede alla luce il bambino che portava dentro di sé in prigione. Egli passò i primi nove anni di vita in carcere, vicino agli adulti. Cosa ricorda un bambino così della sua infanzia? Muri di prigione e prigionieri oromo depressi. Non sorprende che il bambino abbia sviluppato l’epilessia.

Era terribile essere un bambino che cresceva in questa atmosfera di paura e tensione. I bambini non erano esclusi da quello che succedeva alla famiglia. Niente ci veniva nascosto. Sentivamo gli adulti discutere di assassinii, torture e uccisioni. Li vedevamo sempre preoccupati su chi sarebbe stato il prossimo arrestato. Come loro, anche noi eravamo terrorizzati di ascoltare che un altro parente era stato ucciso nella sua casa o aveva ricevuto la sentenza di morte in prigione. Condividevamo il loro dolore e la loro angoscia. Da bambina facevo sogni in cui la polizia Amhara e la qabale avevano dato fuoco alla nostra casa, e mi trovavo a lottare per uscire dalle fiamme. Mi ricordo com’ero felice quando mi svegliavo e scoprivo che era solo un sogno. Ogni tanto desideravo di essere nata Amhara. Ora capisco cosa intendono gli Oromo quando dicono che il destino di ognuno è deciso alla nascita. Tale è stato il mio destino. È stato il mio destino di essere nata Oromo. Testimoniare la sofferenza della mia famiglia e preoccuparmi con gli adulti per il prossimo che sarebbe stato arrestato e ucciso.

Ma ora ho accettato queste preoccupazioni, le torture e le infelicità e so che questa sofferenza è il destino degli Oromo della mia generazione, dei bambini che sono nati in questo tempo da incubo.

Mio padre fece di tutto per proteggerci dalla persecuzione. La prima cosa che fece fu di dare ai suoi figli nomi amarici. Continuava a dirci che avere un nome amarico ci avrebbe reso la vita più facile. Ma questo non ci aiutò. Ci potevano identificare anche con i nostri nomi amarici. Ora ho fatto esattamente l’opposto. Come sono scappata dall’Etiopia e sono venuta a vivere in Gran Bretagna, ho cambiato il mio nome. Mi sono data un nome Oromo di mia scelta. Mi piace; suona bene.

Io amo mia madre. Amo anche mio padre, ma amo mia madre ancora di più. Amo mia madre come amo il mio paese. Mia madre è un’eroina.  Lei è passata nell’inferno. Non doveva solo occuparsi della famiglia a casa; doveva lavorare e doveva occuparsi di tanti prigionieri Oromo in carceri diversi. Alcuni nemmeno li conosceva. Tutto quello che sapeva di loro era che erano stati imprigionati per la causa degli Oromo e che erano amici di suo fratello. Non fu solo mia madre che passò attraverso questa agonia. Conosco tante altre donne oromo che hanno avuto la stessa esperienza. Una è un’amica intima di mia madre. Gli Amhara hanno ucciso suo marito. Suo fratello venne nelle montagne per unirsi all’”Oromo Liberation Front”. Lei ha cresciuto quattro figli e figlie tutti da sola. Era una dattilografa al tribunale ed era pagata a seconda del numero di pagine che dattilografava. Aveva pochi soldi ma riusciva a occuparsi dei suoi bambini e a mandarli a scuola. Certo non poteva mandarli alle scuole migliori. Le scuole migliori erano solo per i ricchi Amhara, gli europei e pochi Oromo collaborazionisti. A volte la famiglia restava senza cibo per giorni. Ricordo che mia madre dava ad alcuni amici un po’ di soldi. Mia madre stava relativamente bene, perché mio padre aveva un lavoro. Ma non stiamo parlando di situazioni cui dover fare fronte per pochi giorni o pochi mesi. Queste donne hanno sofferto in questo modo per quindici anni o più e continuano a soffrire.

Alcuni Oromo che erano in carcere non avevano parenti a Addis Abeba. I loro parenti nelle città di provincia e in campagna gli facevano visita una o due volte all’anno. Dovevano viaggiare per lunghe distanza e per molti giorni per andare a trovare i loro figli e figlie. Quando questi parenti venivano alle prigioni, ci si aspettava che parlassero in lingua amarica, una lingua che loro non conoscevano. Se non potevi parlare quella lingua, le guardie della prigione ti mandavano via. Non gli importava che fossi venuto da così lontano. Mi ricordo di essere lì ad osservare le donne anziane, che non potevano parlare amarico, con le lacrime nei loro occhi. Qualche volta mia madre si offriva di tradurre. Immagina parlare al tuo stesso figlio attraverso un traduttore. A scuola, i bambini oromo erano presi in giro per la loro pronuncia errata di parole amariche. I nostri anziani erano umiliati dall’essere forzati a parlare ai loro stessi figli tramite un traduttore, quando andavano a visitare i loro parenti in carcere. Dovevano fare così perché le guardie della prigione fossero sicure che nessuna informazione segreta venisse scambiata.

Con tutto questo, cominciavi a chiederti perché fosse così sbagliato essere Oromo. Cosa c’era di sbagliato nel parlare la lingua oromo? Cosa c’era di sbagliato ad avere un nome oromo? Sebbene io conosca poco della cultura oromo tradizionale e non possa parlare la lingua oromo come vorrei (questo perché sono cresciuta a Addis Ababa), ora voglio essere in grado di parlare la lingua oromo, voglio conoscere la cultura oromo, voglio conoscere la storia oromo. Vedi, quello che gli Amhara non hanno capito, è che più loro cercano di forzarci ad abbandonare tutto ciò che è Oromo, più noi vogliamo essere Oromo.

L’intera idea di imprigionare una persona in Etiopia non era per correggerlo o per correggerla. Era fatto per punirla, per terrorizzarla. La punizione non era diretta solo al prigioniero, ma all’intera famiglia. Si voleva dare una lezione e un avvertimento a tutti quelli che simpatizzavano con la causa degli Oromo. Ricordo che una volta mia madre svenne e quasi andò in coma per lo shock e dovette essere portata d’urgenza all’ospedale. L’incidente capitò quando sentimmo che alcuni prigionieri oromo erano stati giustiziati durante il fine settimana. Il nome di mio zio era nella lista di quelli che erano stati fucilati. Quando mia madre sentì la notizia ebbe un collasso. Si era occupata di mio zio in prigione per otto anni; la notizia era troppo per essere sopportata. Era come se anche lei avesse smesso di lottare. Il giorno dopo, mio padre pagò le guardie della prigione con una bustarella per verificare l’informazione. Così sapemmo, grazie a Dio, che non era stato mio zio ad essere fucilato, ma un altro uomo con lo stesso nome. Mia madre continuava a ripetere, “non so chi stia peggio, quelli in prigione o noi”. Ti dico questo perché non faceva differenza se eri in prigione oppure no. Se un membro della tua famiglia era imprigionato eravamo tutti in prigione. L’intera famiglia soffriva psicologicamente. I prigionieri Oromo non soffrivano solo dall’essere costretti in un piccolo spazio in una cella stretta. Erano anche torturati psicologicamente. Alcuni furono permanentemente storpiati. Alcuni persone che furono fucilate vennero sepolte in fosse comuni. Coloro che furono testimoni di questi eventi e sopravvissero fisicamente furono traumatizzati e portarono profonde cicatrici emotive e psicologiche per le esperienze che avevano attraversato. Questa ferita è permanente e rimarrà con loro fino alla morte. Ma quelli che non furono fisicamente incarcerati, tutti quelli che hanno visto e sono stati testimoni degli eventi, madri, fratelli, padri e sorelle, hanno pure sofferto oltre il descrivibile. Tutte portano cicatrici profonde e permanenti.

Ciò che ti ho raccontato finora riguarda i miei sentimenti e le esperienze dei miei genitori e parenti stretti. La mia famiglia potrebbe non essere una famiglia tipica. C’erano molte famiglie che semplicemente si disintegrarono e sparirono. C’erano molte donne oromo che persero i loro mariti, bambini oromo che persero i loro padri e genitori oromo che persero i loro bambini dall’oggi all’indomani. Ho sentito di un uomo di cui si dice abbia perso per sempre la sua capacità di parlare dopo essere stato testimone a casa sua dell’uccisione dei suoi quattro figli. Ti potrei raccontare molte altre storie che ho ascoltato dagli adulti quando ero una bambina.

Fu mio zio che consigliò a mia madre di mandarmi via. I miei genitori erano spaventati per la mia sicurezza. Vedi, avevo cominciato a odiare le persone che stavano facendo tutto questo alla mia famiglia, così tanto che non m’importava di vivere o di morire. Ero diventata estremamente violenta. Criticavo apertamente il governo e avrei detto in pubblico come mi sentivo per quello che stavano facendo agli Oromo. I miei genitori dovettero ottenere i documenti per il mio viaggio in Inghilterra a un alto costo. Sentivano che era l’unica strada per me. Avevo solo sedici anni quando sono arrivata in Inghilterra. Ho festeggiato il mio diciassettesimo compleanno qui.

Ero in Inghilterra quando Mengistu abbandonò il paese. È qui che sentii che mio zio era uscito dalla prigione. Alla notizia sono esplosa di gioia.

Dopo che Mengistu abbandonò il paese nel 1991, tutti noi pensavamo che le cose sarebbero cambiate. Ma niente è cambiato per gli Oromo. Continuano a essere perseguitati dal cosiddetto governo democratico dell’EPRDF[3]. Secondo le organizzazioni locali e internazionali dei diritti umani, ci sono più di 50.000 Oromo in campi di concentramento quali quelli di Hurso in Harraghe, Dhidhessa in Wallaga ed in altri posti. Le stesse cose continuano.

Io sento da casa che gli Oromo sono determinati a resistere alla attuale dominazione Amhara-Tigrina. Notizie da casa ci dicono che molti Oromo sono partiti per le montagne. Ma è difficile per loro resistere quando tutto è contro di loro. Non ho dubbi che gli Oromo vinceranno alla fine, ma a quale costo, mi domando.

Voglio ritornare al mio paese, voglio andare a Oromia. Voglio fare tutto ciò che posso per cambiare la vita delle donne e dei bambini oromo per il meglio. Ecco perché ho scelto di studiare medicina. Vedi, la facoltà di medicina in Inghilterra è molto competitiva. Ti si chiede di ottenere l’eccellenza in quasi tutti le materie per assicurarti un posto in una buona università. Ecco perché io ho lavorato giorno e notte quest’anno. Quest’anno ho ottenuto le migliori votazioni complessive tra tutti i rifugiati sponsorizzati dall’Africa Education Trust. Ora che ho raggiunto i livelli richiesti e mi è stato offerto un posto in una delle migliori scuole di medicina nel paese, io continuerò a studiare, così posso servire la mia gente. Sono stata preoccupata nell’attesa di conoscere la mia ammissione alla borsa di studio tutta l’estate. Anche se non so per certo che l’otterrò mi sono registrata ai corsi ed ho cominciato a frequentare le lezioni[4]. Guardami, guarda il mio coraggio: sono qui senza un soldo. Ma ce la farò; sono determinata a farcela. Voglio dedicare il resto della mia vita a servire la causa delle donne e dei bambini Oromo.

Mi sento meglio dopo averti raccontato la mia storia. Ho sempre voluto parlare a qualcuno di fiducia delle cose che mi sono successe. Fa bene sapere che qualcuno si preoccupa e condivide il fardello. È come se un peso fosse stato sollevato.

  

Post-script
(Aneesa Kassam)

Dalle reazioni di molti studiosi oromo presenti al seminario Being and Becoming Oromo a Goteborg e degli Oromo della diaspora che successivamente lessero il documento, è chiaro come la storia di Hawani scuota profondi echi e risonanze connessi alla loro esperienza di essere Oromo. Gli eventi che Hawani racconta formano parte del sapere condiviso dell’essere Oromo. La sua storia cattura ‘frammenti’ di questa esperienza collettiva, che insieme formano la storia rivelatrice degli Oromo. Essa riflette la battaglia in corso, che storicamente non è ancora conclusa, ma costituirà il tipo di materiale che permetterà di scrivere la storia del contemporaneo. Come tale, è storia ne suo stesso divenire.

Quale documento di storia di vita, la storia è potente; è semplice  ma efficace. Come narrazione, contiene numerosi significati, che possono essere letti a diversi livelli: sociologico, politico, culturale, psicologico, ecc. Per motivi di spazio solo alcuni di questi possono essere qui discussi.

La storia si basa sullo sfondo dell’oppressione statale e della persecuzione in Etiopia, e descrive il modo spietato con cui un regime minoritario cerca di opprimere una maggioranza senza poteri.  Essa propone dettagli di vita reale degli arresti, degli imprigionamenti, delle torture e delle uccisioni subite dagli oppositori politici e dell’angoscia e paura delle rappresaglie patite dalle loro famiglie. I dati fattuali che descrivono le prigioni di stato e il trattamento dei reclusi sono al di là di ogni giudizio. La storia comunica in forma quasi palpabile l’atmosfera di tensione e i sentimenti di esclusione sofferti dagli Oromo ordinari e l’estensione del pregiudizio manifestato contro di loro. Narra, in particolare, le umiliazioni subite dalle donne oromo e i loro eroici tentativi di mantenere legami familiari e della parentela nella situazione in via di disgregazione.  La famiglia è il luogo del dramma. L’intera narrazione è, infatti, un notevole esempio della capacita di aggregazione che i vincoli parentali hanno per resistere alle pressioni poste su di essi. Evidenzia il ruolo delle donne e il peso riversato su di loro come genitori singoli, forzatamente separate dai loro uomini, nel portare da sole il carico della produzione economica e della riproduzione culturale e sociale. Nella suddivisione dell’ordine sociale stabilito, la storia dipinge alcune delle strategie usate dalle famiglie e dagli individui nell’affrontare la situazione: ritiro e resistenza armata come combattenti della guerriglia; compromessi con le politiche detestate di ‘amharizzazione’ al solo scopo di sopravvivere o schietto rifiuto di adeguamento e fuga in esilio. Nel fare la scelta di andare o restare, gli individui nascondono o affermano le loro identità e vedono i sacrifici richiesti come una battaglia per la patria amata. Lungi dal distruggere l’identità oromo, la storia mostra che la persecuzione Abissina è servita solo a infuocare lo spirito di identità oromo (oromumma) e rimodellandolo, a risvegliare la coscienza oromo, così trasfigurandola e trasformandola da espressione di sentimento locale e regionale in un vero sentimento nazionale.
È questo sentimento che definisce il divenire sociale degli Oromo.

 

 

[1] La famiglia di Hawani proviene da Ambo, situato nella regione “Eastern Macha Oromo”, situata a 120 km a ovest di Addis Abeba. Storicamente una delle zone centrali di conoscenza e cultura Oromo, dove la tradizione è sopravvissuta nonostante la persecuzione della gente da parte dei governi ufficiali passati e presenti. La famiglia di Hawani è ben conosciuta e rispettata nella regione.

[2] Il “Triangolo delle Bermuda” è il nome locale dato ad una delle prigioni di Addis Ababa, visto che pochi prigionieri lì incarcerati possano mai sperare di uscirne vivi.

[3] Nel giugno del 1991 il governo socialista di Mengistu Haile Mariam fu soppiantato dal Ethiopian Peoples’ Revolutionary Democratic Front. Il nuovo governo ‘democratico’ formato successivamente alla partenza dell’ex-presidente intendeva rappresentare gli interessi di tutti i gruppi etnici in Etiopia. Quando fu evidente che le stesse tattiche repressive continuavano ad essere praticate sotto la nuova veste dai partner abissini dominanti la coalizione, i rappresentanti dell’ Oromo Liberation Front si ritirarono dal governo e boicottarono le elezioni. Essi continuano la loro lotta per l’autodeterminazione.

[4] Al momento di andare in stampa nel febbraio 1996 Hawani era ancora in attesa della borsa di studio. Ndr.