AMM Giovani Etiopia n. 3

Intervista a ND
Questa intervista fa parte di una serie di incontri tenuti intorno al tema del viaggio con alcuni ragazzi etiopici provenienti prevalentemente da Addis Abeba, arrivati in Italia come richiedenti asilo a seguito della repressione condotta dalle autorità etiopiche dopo le elezioni politiche del 2005. Gli incontri hanno avuto luogo a Roma.

Data: 18 e 19 febbraio 2008
Luogo: Roma, scuola di italiano per stranieri Asinitas
Durata: 1h49’43’’
Intervistatore: Sintayehu Eshetu (SE)
Lingua/e: amarico

Supporto d’archiviazione: registrazione audio digitale
Trascrizione: Sintayehu Eshetu
Traduzione/i: Sintayehu Eshetu (amarico-inglese); Alessandro Triulzi (inglese-italiano)
Revisione/i: Alessandro Triulzi

ND è un giovane rifugiato proveniente dal quartiere di Kirkos, Addis Abeba. Lascia l’Etiopia all’età di 19 anni, poco dopo aver frequentato la scuola superiore.

SE è arrivato dall’Etiopia in Italia nel 2007. Vive a Roma.

Abstract:
ND narra il suo viaggio dall’Etiopia all’Italia, a partire dalla maturazione del sogno tra i banchi di scuola fino alla delusione provata nel vedere i mendicanti nelle strade di Palermo. In mezzo la discesa dall’altopiano etiope, l’arrivo in Sudan, la vita a Khartoum e l’inizio di una serie di vicissitudini e di violenze, soprattutto nel deserto tra Sudan e Libia, dove il gruppo si vede estorcere denaro e viene minacciato di essere abbandonato in pieno deserto dai passeur libici.
In Libia ha inizio una spirale di partenze e deportazioni tra il Sahara e le coste libiche (Kufra, Kirkos, Ijilhabia, Bengasi, Tripoli) in balìa di polizie corrotte e trafficanti. ND passa da un carcere all’altro, alterna periodi di lavoro non pagato con periodi di prigionia, è costretto a chiedere sempre più soldi alla famiglia. Dopo due anni riesce a imbarcarsi per l’Italia e, dopo una traversata terribile, riesce ad arrivare a Lampedusa scortato dalla Guardia Costiera. In Italia è costretto a montare una protesta per ottenere i documenti di viaggio e qualche soldo per spostarsi.

Estratti della trascrizione:
“Il momento della partenza si avvicinava e mia madre passava tutte le notti a piangere. All’inizio era d’accordo con la mia decisione perché temeva che sarei diventato un fannullone rimanendo nel mio paese ma poi cadde nella disperazione. Anch’io piangevo con lei ma poi ci abituammo all’idea della separazione finché un mio cugino mi portò alla stazione degli autobus. Ero il figlio maggiore e avevo due fratelli gemelli. Mentre andavo alla stazione con mio cugino lui mi prendeva in giro dicendomi: “Ma non dovevi andare in Scandinavia? Pensavo di doverti portare in aeroporto invece parti da Merkato con la Walia autobus!?” Poi ci siamo salutati e il mio viaggio è iniziato”.

“La mattina seguente un sudanese ci portò alla stazione degli autobus con la stessa macchina del giorno prima. Era la prima volta che vedevo un autobus come quello. Fuori faceva caldo ma dentro era un altro mondo, ti servivano cioccolate e acqua fresca con i 2800 alph del biglietto. A ogni check-point la polizia sudanese ci interrogava e chiedeva uno o due dollari a tutti gli stranieri. Una volta a Khartoum provammo a contattare M., il dallala (mediatore), lui aveva buoni rapporti con le persone che arrivavano da Kirkos. Poi un etiope venne da noi a nome suo, si chiamava D., ci disse che lavorava con M. e che ci avrebbe portato da lui. Dopo averlo chiamato ci accompagnò a Dem dove abitavano molti etiopi”.

“Ma una notte arrivò la polizia e non potemmo più raggiungere Tripoli, figuriamoci l’Italia! Ci portarono nella prigione di Bengasi… si diceva che lì diventavi giallo perché il sole non lo vedevi mai! Dopo cinque giorni nella prigione un gruppetto di noi decise di scappare. Alcuni non erano d’accordo, dicevano che la punizione sarebbe stata peggiore se ci avessero scoperti. Trovammo una sega rubata da alcuni prigionieri nigeriani e provammo a tagliare le sbarre di ferro dalla finestra della nostra cella. Dopo tanta fatica riuscimmo a tagliarle. E quelli che prima erano contrari alla fuga decisero di scappare con noi anche per paura di ritorsioni su di loro. Prima di scappare pregammo e ci mettemmo in fila per saltar giù dalla finestra. Dopo che il terzo uomo era saltato i cani iniziarono ad abbaiare. Così la polizia si mise in allarme. Quando la polizia arrivò nella nostra cella noi facemmo finta di dormire mentre loro controllavano le sbarre. I cani abbaiavano insistentemente. La polizia si accorse che le sbarre erano state tagliate e ci trasferì in un’altra cella molto fredda, dicendoci di toglierci le scarpe. Poi, uno alla volta, iniziarono a bastonarci. Quelli che erano più grassi venivano picchiati di più, i poliziotti dicevano che loro erano stati bene in Libia, si erano addirittura ingrassati!”.

“Adesso avevo davvero paura di chiedere i soldi a casa. Così iniziai a lavorare per poter guadagnare un po’ di soldi per il cibo. Incontrai alcuni degli amici dai quali mi ero separato in precedenza. Ero in Libia da due anni ormai, avanti e indietro per due anni e due mesi esattamente. Non potevo chiamare la mia famiglia. Sapevo che erano molto preoccupati del fatto che io stessi in Libia e non volevo che si preoccupassero ancora di più per me. Avevo sentito che mia madre credeva che io fossi morto in mare e che si aspettava brutte notizie”.